Maestra di fotografia
20 Gennaio 2016
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Maestra di fotografia

In questi primi giorni dell’anno nuovo vi voglio portare via con me, lontano nello spazio e lontano nel tempo. Siamo nel 1942, a Città del Messico. Ci troviamo nella casa del tedesco Hannes Meyer, architetto fuggito dalla Germania fascista, esule in Messico. Esuli sono anche i suoi due ospiti di questa sera, una coppia di italiani. La donna non ha neanche 46 anni, ma sembra essere molto più vecchia. È stanca, molto stanca e partecipa poco alla conversazione che riguarda gli eventi che si svolgono nella lontana Europa, l’Europa che sta in guerra.

Mentre gli altri parlano del loro sogno di viaggiare, appena finita la guerra, a Mosca, dove tutti hanno vissuto qualche tempo prima e dove vorrebbero ritornare per festeggiare la vittoria sul fascismo, la donna stanca rimane in silenzio ascoltando la musica di Schostakovich che accompagna la conversazione. Verso mezzanotte, il suo compagno va via perché deve finire un lavoro per il giornale del sindacato per il quale scrive regolarmente. La donna rimane, e quando Hannes Meyer le chiede come pensa di passare la giornata dell’epifania, risponde che andrà all’orfanotrofio che ospita un gruppo di bambini spagnoli che hanno trovato rifugio in Messico e che assisterà alla distribuzione dei giocattoli che aveva raccolti fra i suoi amici. Non dice che è stata proprio lei che, quattro anni prima, aveva organizzato in Spagna l’evacuazione di questi bambini e la loro trasferta in Messico. Non racconta niente di quei tre anni terribili vissuti in Spagna, durante la guerra civile, in mezzo alla morte, il sangue, le bombe… Non ama parlare di se stessa, e preferisce rimanere zitta, anche perché comincia a sentirsi male.

Poco tempo dopo lascia la casa di Hannes Meyer, scende le scale, esce dal palazzo e aspetta il taxi che l’amico ha chiamato per lei. Quando il taxi arriva, sale e dà al tassista l’indirizzo dell’ospedale generale che si trova direttamente di fronte casa sua. Il taxi comincia a muoversi e lei cerca di trovare una posizione comoda, pensando che forse cosi si può liberare di quella pressione che sente nel petto, ma la pressione diventa più forte, e mentre chiude gli occhi, si accorge che la pressione è dovuta al braccio di suo padre, un braccio forte che la prende e la fa salire su, su, sempre più su per permetterle di vedere la massa di donne e di uomini che stanno festeggiando il primo maggio in un paese della Carinzia. La donna sorride nel buio del taxi, e subito ricorda di aver sentito dire che, nell’istante della morte, le persone rivedono in pochi secondi tutta la loro vita, come in un film. “Sarà che mi tocca morire?” – si chiede la donna, e si stupisce di non sentire né paura, né dolore, né panico.

“Sono sopravissuta alla povertà di casa mia nel Friuli, sono sopravissuta al viaggio da Genova a New York su una nave in terza classe, sono sopravissuta alle persecuzioni in Messico alla fine degli anni ‘20, sono sopravissuta alla deportazione dal Messico verso la Germania, sono sopravissuta agli anni a Mosca dove ogni tanto qualche amico spariva senza lasciare tracce e dove la gente, sussurrando, parlava di campi di reclusione non per fascisti, ma per comunisti come lo sono stata io… Sono sopravissuta alla guerra di Spagna e sono venuta di nuovo in Messico. Sono venuta in Messico per morire, perche il mio cuore è malato. Non l’ho detto a nessuno. Né al mio compagno Vittorio, né ai pochi amici che mi sono rimasti. Ma io sapevo che per il mio cuore non esisteva un posto più pericoloso di questa città che si trova a 2.250 metri di altitudine. Il medico che mi ha visitato senza dire niente a nessuno mi ha detto che dovevo andare a vivere in altro posto. Ma forse è buono morire in questa città, dove c’è un cimitero dove riposa Robo, il mio marito americano morto 20 anni fa. 20 anni! Quando morì Robo, io non sapevo ancora che in questa città dovevo trovare il mezzo per esprimere tutti i miei sentimenti, che dovevo diventare fotografa. Non ricordo neanche quante fotografie ho scattato in tutti questi anni, fino al 1930, quando, a Mosca, ho deciso di abbandonare la fotografia e lavorare per la solidarietà internazionale. Per i prigionieri politici, per le donne rimaste vedove, per i bambini cresciuti con la fame, cresciuti senza genitori, cresciuti in mezzo alle bombe”.

La pressione sul suo petto diventa insopportabile. La donna emette un sospiro e vuole chiedere al suo papà di lasciarla scendere, di posarla a terra e lasciarla andare, andare, andare. Andare lontano, ma senza fare rumore. Si accorge poi che non si trova in Carinzia, ma a Città del Messico, e l’ultima immagine che vede prima di morire è quel vecchio indiano che ha visto sei giorni prima, dopo la festa di capodanno in casa del poeta e amico Pablo Neruda. Il vecchio era sdraiato a terra, nella notte fredda, e tutti passavano accanto a lui, pensando che si trattasse di un ubriacone. Ma lei si era occupata di lui, aveva chiamato un’ambulanza per farlo portare in ospedale. “Ho cominciato bene questo anno nuovo”, pensa, “ho aiutato qualcuno che ne aveva bisogno. Sono rimasta fedele a me stessa. Me ne posso andare”.

(Nella notte tra il 5 e 6 gennaio 1942 moriva a Città del Messico la fotografa Tina Modotti. È morta nella città che nella prima metà del ‘900 è diventata famosa grazie alle fotografie scattate da questa donna friulana, internazionalista e rivoluzionaria. È morta come aveva vissuto: in silenzio, senza disturbare nessuno).☺

 

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