Laudato si’
28 Gennaio 2016
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Laudato si’

Era il 1224, e Francesco giaceva ammalato su un lettuccio del suo San Damiano, la chiesetta diroccata dove una ventina di anni prima aveva ricevuto dal Cristo crocifisso il messaggio che aveva cambiato la sua vita e dove erano adesso insediate Chiara e le sue sorelle. Sforziamoci d’immaginarlo, quel povero piccolo uomo smagrito dopo una notte di dolore e di pena, quando il sole nascente dell’alba ferisce i suoi occhi malati – è il tracoma preso cinque anni prima in Egitto, per l’incontro con il Sultano – e glieli fa lacrimare. Sforziamoci di vedere il mondo e le povere suppellettili di quella stanzetta attraverso quegli occhi ormai in grado di distinguere forse appena poco più che delle ombre. E scrive, o meglio detta perché di scrivere non ha la forza, parole che gli salgono direttamente dal cuore. Si sono versati fiumi d’inchiostro e scritte biblioteche intere su quei pochi versi. Nella loro luminosa chiarezza, essi appaiono ineffabili come Colui in onore del Quale sono stati scritti. Lo Spirito soffia dove vuole: e quella mattina ha soffiato su quel povero frate e sui suoi occhi arrossati che hanno finalmente visto il Mistero dell’universo. Quelle parole parlano di Dio, della Sua Gloria, della Sua infinita Maestà (Onnipotente), della Sua carità infinita (Bon Signore), della Sua incommensurabile distanza rispetto agli uomini eppure della forza con la quale egli sa arrivare a loro, e soprattutto a quelli tra loro che sanno perdonare per amor Suo, attraversando tutto il creato, cioè l’universo: Messer lo Frate Sole, immagine nobilissima (significatione) di Dio, e la luna, e le stelle, e quindi i quattro elementi di cui la materia del mondo è costituita – il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra con i suoi fiori e i suoi frutti. Quella poesia, che molti hanno giudicato ingenua – e in fondo con ragione – abbraccia il mistero del creato e della natura con una forza e una chiarezza che, dopo i pochi versetti del Genesi, nessun filosofo e nessun poeta era mai riuscito a eguagliare.

Il Cantico è un irreprensibile, cristallino trattato teologico.

A torto lo si è interpretato come un testo “panteista”. Non c’è proprio nulla, qui, di panteistico: il cosmo e la natura si guardano bene dal fondersi e dal dissolversi in Dio; e Dio dal fondersi e dal dissolversi con loro. Il Cantico delle creature è appunto tale perché è scritto in lode del Creatore, e anche in loro lode, e in lode dell’uomo che tra le creature è la somma, la più amata, quella fatta “a Sua immagine e somiglianza”, ma che pur sempre resta creatura, sorella pertanto di tutte le altre. C’era stata, nella filosofia cristiana del secolo XII, una grande tentazione panteistica: era quella neoplatonica, dei Maestri della scuola di Chartres. Ma a quella tentazione Francesco, neppure un attimo soggiace. Dio resta il Creatore, amorosamente vicino ma infinitamente superiore a qualunque creatura. In cambio, c’era un altro pericolo a minacciare la Chiesa del tempo e Francesco, che nel secondo decennio aveva attraversato la Francia meridionale travolta dalla “crociata degli albigesi”, doveva averlo ben presente. Nella sua Assisi aveva probabilmente sentito anche lui predicare quegli strani profeti pallidi e smagriti, che annunziavano il Regno di Dio con le parole dell’evangelista Giovanni e attaccavano la Chiesa ricca, avida e superba. Erano gli adepti della “Chiesa” catara, una vera e propria anti-chiesa che si presentava sotto le vesti della portatrice dell’autentico cristianesimo, quello “delle origini”, quello povero e puro, ma che in realtà ai loro seguaci spiegavano che la Chiesa li ingannava perché era la Bibbia ad averli ingannati, che il vero Dio, il Signore della Luce, era puro Principio Spirituale. Il Creatore adorato da tutti i figli di Abramo era Satana; il creato, cioè la materia, era il Male assoluto; e quanto all’uomo, spirito eletto imprigionato in una laida gabbia di carne, solo la morte avrebbe potuto liberarlo. Ma se le cose stavano così, se questo era il cosmo, allora il creatore di tutte le cose era Lui, il Principio malvagio, il crudele Demiurgo.

La superba e potente Chiesa di papa Innocenzo III, aveva risposto a questo attacco inaudito con una furiosa crociata e – in seguito – con i tribunali dell’Inquisizione. Alle stragi degli “infedeli” nelle crociate si sommavano quelle degli “eretici” e, poi, delle “streghe” in Europa. Ma quel che né l’una né gli altri sarebbero mai forse riusciti a fare per sradicare quella malapianta travestita da fiore di virtù seppero farlo i pochi, miracolosi versi della più grande poesia mai scritta al mondo. Tutto, in fondo, sta dunque nella semplicità di quella preposizione semplice che ha tormentato filologi, linguisti e storici: quel “per” che torna iterante in ogni versetto del Cantico. Che cosa significa? È un complemento di causa, (che Tu sia lodato, o Signore, per aver creato…)? O un complemento d’agente, simile al par francese e al por castigliano (che Tu sia lodato, o Creatore, da parte della corte di tutte le creature che adoranti Ti circondano)? O un complemento strumentale, simile al dià greco (che Tu sia lodato, o Signore, non solo direttamente dall’uomo, bensì anche attraverso ogni cosa da Te creata, e che conferma la Tua potenza e il Tuo amore)? Fermiamoci qua, perché gli studiosi hanno aggiunto molte altre cose.

Francesco papa

Ha voluto dedicare a quella lode infinita a Dio creatore e al creato la sua ultima enciclica Laudato si’, per ricordarci che l’uomo – proprio secondo la lettera e lo spirito del Genesi – non è il padrone dell’universo (Uno solo è il Padrone) ma che ne è il guardiano, il Custode; e che alla fine dei tempi, come ciascuno di noi dovrà riconsegnare a Dio la sua anima concessagli immacolata e da lui più volte sporcata e strappata, ricucita e ripulita, l’umanità dovrà riconsegnarGli il creato.

Il primo Francesco (d’Assisi) e il secondo (papa) sono contemporanei di un terribile mondo dominato dall’avidità del denaro e dal rifiuto dell’altro in una terra devastata dal potere dell’uomo che da “giardino di Dio” l’ha resa “terra inospitale” e luogo di umiliazione e di morte.

La domande che guidano il papa le troviamo al n. 160 dell’enciclica: Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? … A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra.

 

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