Il filo rosso di raab la misericordiosa | La Fonte TV
Giosuè lasciò in vita la prostituta Raab, la casa di suo padre e quanto le apparteneva. Ella è rimasta in mezzo a Israele fino ad oggi, per aver nascosto gli inviati che Giosuè aveva mandato a esplorare Gerico (Gs 6,25).
Il libro di Giosuè è uno dei libri biblici più problematici. Leggerlo è opera estremamente delicata in un periodo come il nostro dove in nome di Dio si compie ogni sorta di violenza (vedi l’opera dell’Isis). Come può il Dio d’Israele chiedere al suo popolo di conquistare la terra di Canaan compiendo delle stragi militari? Il Libro infatti racconta la presa di possesso della terra promessa e si compone di un discorso di installazione nella terra ad opera di Giosuè, di una serie di racconti sui preparativi della conquista e dell’effettivo ingresso nella terra, di lunghe liste relative alla spartizione del territorio in dodici parti in base al numero delle tribù di Israele e si conclude con due discorsi di addio di Giosuè.
Il libro non riflette una prospettiva storica ma ideologica, etnocentrica, che insiste cioè sulla separazione di Israele dagli altri popoli e attinge ai testi di propaganda assiro-babilonese in una prospettiva nazionalistica: Yhwh viene descritto come un Dio guerriero e militarista alla maniera del dio degli Assiri, Assur. Altre tradizioni della Bibbia ebraica, come quelle profetiche, non descrivono affatto l’insediamento in Canaan come frutto di una conquista militare. Persino in Gs 23 il possesso del paese non dipende dalle vittorie militari ma dall’obbedienza alla Torah. L’archeologia inoltre ci attesta che Israele si è formato a partire dalla popolazione autoctona, attraverso un lungo processo durante il quale di certo sono accaduti anche alcuni scontri armati.
La storia di Raab (Gs 2) denuncia dall’interno la teologia etnocentrica che attraversa il testo, scoraggiando una lettura trionfalista delle origini di Israele. Senza l’aiuto degli stranieri Israele non avrebbe potuto insediarsi nella terra promessa. Raab è la prostituta di Gerico alla cui porta bussano gli esploratori certi di trovarvi ospitalità. La donna non solo li accoglie ma mette a repentaglio la propria vita quando il re manda i suoi uomini a cercarli, riferendo che le spie sono scappate, mentre li nasconde sul suo terrazzo e li fa scendere da una cesta. È la straniera dal volto misericordioso (dice agli esploratori di aver fatto loro ḥesed, “misericordia”, e chiede ḥesed per sé e la sua famiglia, cf. Gs 2,12). È colei che crede che Yhwh è il Dio del cielo e della terra e vuol dare il paese a Israele. Per questo, grazie al filo rosso che gli uomini le danno come segno di riconoscimento, viene risparmiata insieme alla sua famiglia, integrata nel popolo di Dio e, stando alla prima pagina del Nuovo Testamento (la genealogia di Matteo), merita di essere annoverata tra le madri del Messia, le “misericordiose” che hanno dilatato i confini della storia della salvezza.
Integrare gli altri, senza fagocitarne le risorse personali, non è esperienza di sottrazione, ma di addizione. È la sfida della storia sacra, ma anche di quella profana, che in realtà sono un’unica storia, essendo entrambe un continuo apprendistato di alterità, l’eterna sfida dell’uomo che senza l’altro resta incompiuto.
Giosuè lasciò in vita la prostituta Raab, la casa di suo padre e quanto le apparteneva. Ella è rimasta in mezzo a Israele fino ad oggi, per aver nascosto gli inviati che Giosuè aveva mandato a esplorare Gerico (Gs 6,25).
Il libro di Giosuè è uno dei libri biblici più problematici. Leggerlo è opera estremamente delicata in un periodo come il nostro dove in nome di Dio si compie ogni sorta di violenza (vedi l’opera dell’Isis). Come può il Dio d’Israele chiedere al suo popolo di conquistare la terra di Canaan compiendo delle stragi militari? Il Libro infatti racconta la presa di possesso della terra promessa e si compone di un discorso di installazione nella terra ad opera di Giosuè, di una serie di racconti sui preparativi della conquista e dell’effettivo ingresso nella terra, di lunghe liste relative alla spartizione del territorio in dodici parti in base al numero delle tribù di Israele e si conclude con due discorsi di addio di Giosuè.
Il libro non riflette una prospettiva storica ma ideologica, etnocentrica, che insiste cioè sulla separazione di Israele dagli altri popoli e attinge ai testi di propaganda assiro-babilonese in una prospettiva nazionalistica: Yhwh viene descritto come un Dio guerriero e militarista alla maniera del dio degli Assiri, Assur. Altre tradizioni della Bibbia ebraica, come quelle profetiche, non descrivono affatto l’insediamento in Canaan come frutto di una conquista militare. Persino in Gs 23 il possesso del paese non dipende dalle vittorie militari ma dall’obbedienza alla Torah. L’archeologia inoltre ci attesta che Israele si è formato a partire dalla popolazione autoctona, attraverso un lungo processo durante il quale di certo sono accaduti anche alcuni scontri armati.
La storia di Raab (Gs 2) denuncia dall’interno la teologia etnocentrica che attraversa il testo, scoraggiando una lettura trionfalista delle origini di Israele. Senza l’aiuto degli stranieri Israele non avrebbe potuto insediarsi nella terra promessa. Raab è la prostituta di Gerico alla cui porta bussano gli esploratori certi di trovarvi ospitalità. La donna non solo li accoglie ma mette a repentaglio la propria vita quando il re manda i suoi uomini a cercarli, riferendo che le spie sono scappate, mentre li nasconde sul suo terrazzo e li fa scendere da una cesta. È la straniera dal volto misericordioso (dice agli esploratori di aver fatto loro ḥesed, “misericordia”, e chiede ḥesed per sé e la sua famiglia, cf. Gs 2,12). È colei che crede che Yhwh è il Dio del cielo e della terra e vuol dare il paese a Israele. Per questo, grazie al filo rosso che gli uomini le danno come segno di riconoscimento, viene risparmiata insieme alla sua famiglia, integrata nel popolo di Dio e, stando alla prima pagina del Nuovo Testamento (la genealogia di Matteo), merita di essere annoverata tra le madri del Messia, le “misericordiose” che hanno dilatato i confini della storia della salvezza.
Integrare gli altri, senza fagocitarne le risorse personali, non è esperienza di sottrazione, ma di addizione. È la sfida della storia sacra, ma anche di quella profana, che in realtà sono un’unica storia, essendo entrambe un continuo apprendistato di alterità, l’eterna sfida dell’uomo che senza l’altro resta incompiuto.
Con i libri del Pentateuco, presentati i mesi scorsi, abbiamo cominciato a dare uno sguardo veloce, ma non superficiale, ai 73 libri che compongono la Bibbia
Giosuè lasciò in vita la prostituta Raab, la casa di suo padre e quanto le apparteneva. Ella è rimasta in mezzo a Israele fino ad oggi, per aver nascosto gli inviati che Giosuè aveva mandato a esplorare Gerico (Gs 6,25).
Il libro di Giosuè è uno dei libri biblici più problematici. Leggerlo è opera estremamente delicata in un periodo come il nostro dove in nome di Dio si compie ogni sorta di violenza (vedi l’opera dell’Isis). Come può il Dio d’Israele chiedere al suo popolo di conquistare la terra di Canaan compiendo delle stragi militari? Il Libro infatti racconta la presa di possesso della terra promessa e si compone di un discorso di installazione nella terra ad opera di Giosuè, di una serie di racconti sui preparativi della conquista e dell’effettivo ingresso nella terra, di lunghe liste relative alla spartizione del territorio in dodici parti in base al numero delle tribù di Israele e si conclude con due discorsi di addio di Giosuè.
Il libro non riflette una prospettiva storica ma ideologica, etnocentrica, che insiste cioè sulla separazione di Israele dagli altri popoli e attinge ai testi di propaganda assiro-babilonese in una prospettiva nazionalistica: Yhwh viene descritto come un Dio guerriero e militarista alla maniera del dio degli Assiri, Assur. Altre tradizioni della Bibbia ebraica, come quelle profetiche, non descrivono affatto l’insediamento in Canaan come frutto di una conquista militare. Persino in Gs 23 il possesso del paese non dipende dalle vittorie militari ma dall’obbedienza alla Torah. L’archeologia inoltre ci attesta che Israele si è formato a partire dalla popolazione autoctona, attraverso un lungo processo durante il quale di certo sono accaduti anche alcuni scontri armati.
La storia di Raab (Gs 2) denuncia dall’interno la teologia etnocentrica che attraversa il testo, scoraggiando una lettura trionfalista delle origini di Israele. Senza l’aiuto degli stranieri Israele non avrebbe potuto insediarsi nella terra promessa. Raab è la prostituta di Gerico alla cui porta bussano gli esploratori certi di trovarvi ospitalità. La donna non solo li accoglie ma mette a repentaglio la propria vita quando il re manda i suoi uomini a cercarli, riferendo che le spie sono scappate, mentre li nasconde sul suo terrazzo e li fa scendere da una cesta. È la straniera dal volto misericordioso (dice agli esploratori di aver fatto loro ḥesed, “misericordia”, e chiede ḥesed per sé e la sua famiglia, cf. Gs 2,12). È colei che crede che Yhwh è il Dio del cielo e della terra e vuol dare il paese a Israele. Per questo, grazie al filo rosso che gli uomini le danno come segno di riconoscimento, viene risparmiata insieme alla sua famiglia, integrata nel popolo di Dio e, stando alla prima pagina del Nuovo Testamento (la genealogia di Matteo), merita di essere annoverata tra le madri del Messia, le “misericordiose” che hanno dilatato i confini della storia della salvezza.
Integrare gli altri, senza fagocitarne le risorse personali, non è esperienza di sottrazione, ma di addizione. È la sfida della storia sacra, ma anche di quella profana, che in realtà sono un’unica storia, essendo entrambe un continuo apprendistato di alterità, l’eterna sfida dell’uomo che senza l’altro resta incompiuto.
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