A chi non ha voce
5 Maggio 2017
La Fonte (351 articles)
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A chi non ha voce

Abbiamo voce, parole che spesso, spessissimo, quasi sempre nessuno riconosce. Il nostro è un linguaggio straniero che irrita, inquieta, infastidisce, rende violenta la reazione della normalità: (padre, madre, figli, fratelli, amici, colleghi); è un linguaggio che non ha confini se non quelli imposti dalla propria mente eppure questo linguaggio non ha ascolto.

Abbiamo occhi che non si possono guardare: gli altri abbassano lo sguardo al nostro continuo chiedere, silenzioso, lamentoso, urlante.

Abbiamo mani che non sopportano i gesti quotidiani: i nostri richiedono spazio e tempo diversissimi, non ci sono equazioni che ritornano, ritmi stabili che ci consentano di essere accettabili.

Abbiamo pensieri che si moltiplicano a dismisura nell’asse del tempo-spazio, nel nostro immobile stare, nel nostro inquieto procedere, nella furia improvvisa di vivere o morire, nella lenta dissacrazione della vita, nella spoliazione continua dell’identità.

Siamo fuori e non sappiamo essere che lì e non in un altro luogo o in un altro spazio. Il nostro altrove non è un sogno: spesso è un incubo da cui sappiamo uscire solo con un gesto che si compie in un attimo, quasi per caso, mentre gli altri sono sempre più disattenti, sempre più lontani, noi sempre più stranieri.

L’estraneità ci porta a compiere viaggi della mente che hanno un’unica risposta: “se vuoi guarire, dipende da te, dalla tua volontà”. L’eccesso, in qualsiasi modo si esprima, è condannato e quindi si richiede tout court un ritorno alla norma, alla disciplina di sempre, alla vigilanza che sta nella quiete normale. Se qualcuno di noi non vuole essere in questa norma, scatta il meccanismo della costrizione se non del TSO.

Ci sentiamo allora colpevoli e cattivi: con i parenti, con la società, con il mondo del lavoro e costruiamo intorno a noi dispositivi che ci rendano appena accettabili mentre continua il calvario che è mascherarsi da buono, da attivo, ma nel cuore e nella mente si spengono ogni giorno migliaia di mondi o se ne accendono all’improvviso milioni.

Non fingiamo, non recitiamo, non siamo ipocriti, non abbindoliamo, non cerchiamo di essere diversi da noi stessi: lo siamo e con questa dichiarazione di essere sofferenti, di avere paure, mostri, incapacità, debolezze, inutilità, gravi forme di fobie, di assenze, di presenze, in fondo non facciamo altro che mettere in atto il più grande spettacolo che riguarda l’uomo nella sua interezza… Ma la vera rivoluzione sta nel coraggio della cura

Le cure sembrano indicare le varie metodologie adottate da medici per un target o per diversi target di pazienti, il coraggio della cura è invece una formula diversa. È esserci tutti a scambiarsi diverse esperienze; non è una dichiarazione di Potere che s’impone sull’altro, con formule di cure per l’altro, ma una stratificazione legittima ad assicurarsi formule del benessere, non con disparità, ma con un progetto di vita che riguarda tutti, famiglie e pazienti, medici, società… Ma di che vita si tratta?

Si tratta di una vita, dove per esempio le azioni di necessità non sono solo i farmaci, ma questi sono solo il primo grado di tessuto necessario per il buon vivere di qualsiasi cittadino. La cura di cui io parlo e di cui dovremmo discutere alla pari, non è diversa dalla cura che ogni buon politico, ogni buon medico, ogni essere non deve, non può ignorare. Se non fosse così, mi verrebbe il dubbio che viviamo davvero in tempi bui dove forse si vuole far tacer anche il malato, oltre che il giullare, o il dissidente. Ma noi pazienti siamo davvero un esercito che non vuole tacere, mai essere ridotto al silenzio come neppure all’inutile e querula richiesta.

Nel ‘78, Ingeborg Bachmann in una trilogia incompiuta,dal titolo Cause di morte, scrive: io affermo e tenterò soltanto di fornire una prima prova che ancora oggi moltissime persone non muoiono, ma vengono assassinate. Delitti invisibili, sublimi assassini dell’anima che avvengono senza spargimento di sangue e spesso si presentano sotto le specie di atti innocui o addirittura altruistici e disinteressati. La strage si compie entro i limiti del lecito e della morale, all’interno di una società i cui deboli nervi tremano di fronte agli atti belluini. Ma non per questo i delitti sono meno gravi, essi richiedono soltanto una maggiore raffinatezza, un diverso grado di intelligenza e sono spaventosi (prologo a “il caso Franza” p.12 ed Adelphi. Stralci di intervento di Loredana Alberti, presidente associazione Dea in Convegno sulla lotta allo stigma in psichiatria – Chiesa S. Maria della Vita- Bologna 2000).

Oggi, ancora oggi, si compiono questi crimini: si applica il TSO, senza informare il malato della cura, lo si imbottisce di psicofarmaci durante il TSO ripetuto anche dopo le norme che la legge ha imposto, si chiude il paziente in luoghi dove anche bravi infermieri, bravi medici compiono nel totale interesse del malato, lo spegnimento di identità di persone.

In realtà il fare guarire non obbedisce quasi mai a quei dettami che gli stessi medici in questi anni hanno ipotizzato scrivendo fiumi di parole sulla medicina narrativa e quindi il rapporto con il paziente. In testi non lontanissimi, Charon, Bert, ed altri scrivono a lettere cubitali sulla medicina Narrativa che prevede che tutti gli operatori sanitari, attraverso percorsi formativi, possano sviluppare buone competenze nel prestare cura a chi ha problemi di salute e le abilità necessarie per interpretare in modo ricco ed accurato i racconti dei pazienti per capire cosa essi significano e anche per cogliere le problematiche dei pazienti in tutta la loro complessità (Charon 2006).

Mi chiedo dove e quando avvenga questo. Il paziente psichiatrico, pur con amorevoli cure, rimane un pacchetto chiuso che nessuno vuole aprire. Dove va bene, in regioni lungimiranti e ben amministrare, viene pulito, nutrito, curato con le migliori cure che i medici credono opportune. A paziente disinformato.

Volevamo questo nel 2000 quando tutti parlavamo di una psichiatria diversa?☺

 

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