Ad Auschwitz
2 Febbraio 2014 Share

Ad Auschwitz

“Leggere di queste cose è durissimo. E credetemi, voi che leggete, non è meno duro scriverne. «Perché farlo, allora? Perché ricordare?» chiederà, forse, qualcuno. Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità. Chiunque giri le spalle, chiuda gli occhi o passi oltre offende la memoria dei caduti”.

Queste parole di Vasilij Grossman, un grande scrittore russo che fu corrispondente di guerra al seguito dell’Armata Rossa, rendono conto dei motivi per cui vorrei condividere con i lettori de la fonte il ricordo di quella che è stata forse l’esperienza più intensa dei miei dodici anni di insegnamento a Siena. Con sei allievi del mio istituto, lo scorso anno, ho partecipato al viaggio-studio ad Auschwitz, nell’ambito del progetto Treno della Memoria, organizzato dalla Regione Toscana, a cui hanno preso parte oltre 700 persone, tra studenti, insegnanti e testimoni della Shoah.

La partenza dalla stazione Santa Maria Novella di Firenze è avvenuta nella tarda mattinata del 27 gennaio, una data fortemente simbolica, scelta per la sua coincidenza con il Giorno della Memoria. Dopo circa venti ore di viaggio, lungo quello stesso tragitto percorso in condizioni disumane da migliaia di deportati, l’arrivo alla stazione di Oświęcim, nome polacco di Auschwitz, completamente innevata. L’impatto, alla vista del cartello, è stato fortissimo: improvvisamente tutto ciò che avevamo letto sui libri di storia e sentito dai testimoni, si è trasformato in realtà. Nella nostra carrozza, dove fino a poco prima aveva regnato il caos dei ragazzi intenti a prendere dalle valigie tutto il necessario per affrontare il freddo polacco, è calato un silenzio irreale: ammutoliti ci guardavamo negli occhi, incapaci di formulare la domanda che attraversava i pensieri di tutti: come faremo, un’intera mattinata nella neve? E poi, vergognandoci del nostro egoismo: come avranno fatto, il milione di deportati scesi qui appena sessant’anni fa? Ci attendeva, infatti, a pochi km da lì, la visita di Auschwitz II-Birkenau, il più grande dei campi di sterminio, con i suoi 750 ettari di estensione. Un’immensa distesa silenziosa, resa ancora più inquietante dalla neve. I diversi chilometri percorsi nella neve, ad una temperatura di 15 gradi sotto zero, sono stati per tutti noi motivo di sofferenza fisica, ma ci hanno aiutato a immedesimarci nelle terribili condizioni dei deportati, ridotti a scheletri per la denutrizione e coperti solo di logore divise e zoccoli di legno. Avremmo visto quello che resta di due dei carri bestiame usati per la deportazione; le baracche in legno; la “Sauna”, dove i prigionieri venivano spogliati, marchiati e disinfestati; le rovine dei crematori; le fosse di cremazione all’aperto, dove venivano bruciati i corpi che, a partire dal 1944, i crematori non riuscivano più a smaltire.

Un pallido sole polacco ha invece accompagnato, l’indomani, la nostra visita ad Auschwitz I, diventato il campo base (dopo la costruzione, a poca distanza, del campo di sterminio Auschwitz II-Birkenau), e trasformato oggi in un museo, i cui blocchi forniscono al visitatore sia le prove dello sterminio nazista, sia un’idea delle condizioni di vita dei prigionieri nel campo. Oltre agli oggetti appartenuti alle vittime e ritrovati dagli alleati dopo la liberazione (montagne di occhiali, spazzole, pròtesi, scarpe, valigie con i nomi e gli indirizzi), indescrivibile è la massa di quasi due tonnellate di capelli, destinati all’industria tedesca, in cui ancora si intravedono le lunghe trecce di migliaia di donne. Fra i maltrattamenti e le umiliazioni di ogni genere inflitti ai deportati, da ricordare la prigionia nelle celle sotterranee, dove morì padre Massimiliano Kolbe, che accettò di sacrificare la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia. Nella maggior parte dei casi la prigionia finiva invece, per fucilazione, al “muro della morte”, oppure, almeno fino al luglio 1943, quando tutte le operazioni di sterminio furono trasferite ad Auschwitz II-Birkenau, nella camera a gas con annessi quattro forni crematori, gli unici ricostruiti dopo la guerra.

L’ultimo giorno è stato dedicato alla visita della vicina Cracovia, in particolare del ghetto, dove migliaia di ebrei morirono di stenti e di malattie, e, al suo esterno, della fabbrica di pentole dove Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco reso celebre dal film di Spielberg, diede impiego a molte famiglie ebree, salvandole dalla deportazione.

Ma anche ciascun visitatore, oggi, nel suo piccolo, può offrire il proprio contributo: per non dimenticare e per onorare il monito di Primo Levi: “da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa’ che il tuo viaggio non sia inutile, che non sia stata inutile la nostra morte”.☺

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