Anoressia d’amore
11 Marzo 2020
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Anoressia d’amore

Secondo i dati contenuti in un report dell’Istat sui ruoli di genere, diffuso nella giornata contro la violenza sulle donne:

– Più di una persona ogni quattro pensa che le donne possano provocare violenza sessuale con il loro modo di vestire.

– Il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole.

– Il 15,1%, invece, è dell’opinione che una donna subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe e che sia, almeno in parte, responsabile.

– Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%);

– per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”;

– per il 6,2% le donne serie non vengono violentate.

– Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

Alla domanda sul perché alcuni uomini sono violenti con le proprie compagne/mogli:

– il 77,7% degli intervistati – sempre secondo l’Istituto di statistica – risponde perché le donne sono considerate oggetti di proprietà (84,9% donne e 70,4% uomini),

– il 75,5% perché fanno abuso di sostanze stupefacenti o di alcol e di altro,

– 75% per il bisogno degli uomini di sentirsi superiori alla propria compagna/moglie.

– La difficoltà di alcuni uomini a gestire la rabbia è indicata dal 70,6%, con una differenza di circa 8 punti percentuali a favore delle donne rispetto agli uomini.

– Il 63,7% della popolazione considera causa della violenza le esperienze violente vissute in famiglia nel corso dell’infanzia,

– il 62,6% ritiene che alcuni uomini siano violenti perché non sopportano l’ emancipazione femminile mentre è alta ma meno frequente l’associazione tra violenza e motivi religiosi (33,8%).

Sono numeri freddi, statistiche ma queste che sembrano vuote statistiche hanno volti, nomi, storie, pianti, assenze, morti. Umiliazioni. Eccone alcune:

  1. a) “La cosa più difficile è stata essere creduta. Io non avevo prove, non avevo testimoni, non avevo lividi. Una donna che subisce violenza ha sempre un occhio nero, io non avevo neppure un’unghia spezzata. Era una violenza morale, psicologica. Di quelle che non lasciano segni esteriori. Alberto era il ragazzo più affascinante della comitiva all’università, corteggiato da tutte le mie amiche. Credo di essermi lasciata conquistare più dal suo successo, dalla facciata, che da un reale innamoramento. Alberto era distante, frettoloso, dispotico. Il primo filo con cui mi ha intrappolata è stato quello dell’insicurezza fisica. Quando la mattina uscivo per andare al lavoro, Alberto mi lanciava un’occhiata di disgusto, oppure mi strizzava il braccio: stava zitto ma era come se dicesse: «Hai la cellulite anche sulle braccia». Dopo un’ora di preparativi, una sua sola occhiata riusciva a farmi sentire a disagio, disordinata. Una delle mie colleghe, Sabrina, mi fece notare che da quando stavo con lui non sorridevo più e che avevo perso smalto e intraprendenza in ufficio. Me la presi molto e troncai ogni rapporto con lei, non ammettevo che qualcuno criticasse Alberto, pensavo fosse solo invidia. Invece aveva ragione, Alberto era riuscito a minare lentamente anche le mie certezze. Non mi guardavo più allo specchio, per strada tenevo gli occhi bassi evitando di incrociare altri sguardi, avevo paura che tutti vedessero le mie braccia grassocce, ed entravo in confusione persino se qualcuno mi chiedeva un’indicazione stradale. Non facevo più nulla che non fosse per lui. Ma qualsiasi cosa facessi, era sbagliata. Dopo Alberto iniziò a essere più violento, e una mattina, invece di stringermi il braccio mi afferrò per il collo. Quel giorno trovai il coraggio di andare dai carabinieri. «Ma l’ha minacciata di morte o no?», mi chiese il maresciallo da cui mi aveva accompagnata Sabrina. «Non ha parlato, ma il suo sguardo era eloquente», risposi. «Signorina, qui non facciamo processi alle intenzioni», mi azzittì, facendomi sentire una visionaria matta. «Al- meno ce l’ha un referto del Pronto soccorso?»”.
  2. b) Mi guardo allo specchio e vorrei urlare: “Sono viva. Posso guardarmi, esisto!”. Annamaria Spina oggi ha 45 anni, vive con il marito Michele a Catania, con due figli di 14 e 10 anni e fa l’attrice. Ma quel giorno del 1993 poteva essere l’ultimo della sua vita. Ci racconta come ha fatto a essere una scampata e perché ha avuto il coraggio di portare la sua storia sul palcoscenico. “Avevo 22 anni e Nino, il ragazzo che avevo appena lasciato perché era geloso e possessivo, una sera mi invitò in discoteca. Che male c’è, pensai. Poi, una volta in macchina, iniziò a inveire: «Puttana, perché vuoi lasciarmi?». E giù pugni e schiaffi prima sul viso, poi in basso fino allo stomaco. Tra me e la morte c’era una sottile linea di confine, ero priva di forza e di sensi. Non so come ho fatto a uscire viva da quell’abitacolo. Solo a pensarci mi vengono i brividi, non era una dichiarazione d’amore, era una minaccia. Nessun uomo può considerare la sua donna una proprietà”.☺

 

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