Ariamara
Abito il supplizio degli ultimi
come mia stessa carne. Indignato
respiro l’aria dei poveri, gravida,
quando nelle bisacce raschiano vuoto.
Rimossa la panchina-casa, ora
siepe dimora di erbacce rampicanti.
Sfratto programmato dal software, dicono.
Bucce calpestate, petali disfatti: rancido pasto.
Strano che la Caritas non giunga qua sotto.
Corvi assaltatori vibrano ali sui pastrani
strofinando l’ariamara col graffio d’ugola.
Senzanulla traballano al vento, grami
stramazzano al suolo, sacchi di paglia.
Grani di rosario soluzione d’attesa?
Corda al girovita, stretta quest’Asinara,
sul collo scivola libera unta d’olio cravatta
ruvida sulle carotidi. Senza fretta strappa
l’ora nona sul colle del Cranio, scelta umida.
Disfatta senza battaglia, resa senz’armi.
Non serve la differenziata, tutto in bocca.
Accoglienza – senza se e senza – ma per scorie
che richiamano i bassifondi di Londra.
Che dolore agli occhi che sofferenza l’anca.
Maserati nel parcheggio affianco. Chapeau.
S’accappona la pelle per altrui indifferenza,
quella spazzatura urge smaltimento.
Cavernicoli anche noi al tempo dell’i-phone.
Nel caveau della banca luccicano lingotti,
fuori, il sapore grigio dell’ariamara.