CAPITALE E IDEOLOGIA di THOMAS PIKETTY
8 Settembre 2020
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CAPITALE E IDEOLOGIA di THOMAS PIKETTY

Piketty è un economista tra i più conosciuti e letti al mondo. Tutto il suo lavoro si basa sull’analisi dei fatti evidenti e sulla grande quantità di ricerche e dati raccolti. Il mercato e la concorrenza, profitti e salari, capitale e debito, lavoratori qualificati e non qualificati, lavoratori locali e stranieri, i paradisi fiscali e la competitività, non esistono in quanto tali ma sono costruzioni sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, politico, educativo e sociale prescelto dalle classi al potere e dalle categorie di pensiero e giustificative che si decidono di adottare. Da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana non fa altro che giustificare le sue disuguaglianze: bisogna trovarne le ragioni, altrimenti l’intero edificio politico e sociale rischia inesorabilmente di crollare. Ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie che non fanno altro che legittimare la disuguaglianza esistente e chi detiene il potere non fa altro che cercare di descriverla come una cosa naturale. Quindi le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l’insieme delle società sono costruite da chi detiene il potere per giustificare e implementare, quanto più possibile, i propri privilegi. Piketty riassume così lo storytelling del neoliberismo: la disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell’accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili.

L’economista francese sottolinea che questa visione, in teoria, si colloca all’estremo opposto rispetto ai meccanismi della disuguaglianza nelle società premoderne, che si basavano su rigide, arbitrarie e spesso dispotiche disparità di status. In Capitale e ideologia tutte le società mondiali vengono studiate con un metodo che trae spunto dalla solida base economico-statistica di studi sulla proprietà e sul reddito, e che arriva ai giorni nostri partendo da lontano, cioè da quando è stato possibile reperire i dati. In particolare, dal XVIII secolo per il Regno Unito e dalla riforma della pubblica amministrazione successiva alla rivoluzione per la Francia. In qualche misura è come se fosse assodata l’evidenza delle diseguaglianze sulla base di una cospicua letteratura, ormai esistente, provando ad allargare il ragionamento, partendo dall’economia fino ad arrivare alla sfera sociale ed all’azione politica. Tutta l’analisi della ricerca osserva le società “inegualitarie” nel corso dell’epoca moderna. La stessa scelta del titolo, Capitale e Ideologia, ribadisce l’importanza che Piketty attribuisce agli argomenti ideologici con i quali le diverse società inegualitarie hanno giustificato la propria struttura e ne hanno ipostatizzato l’inevitabile “naturalità”. Piketty non nasconde l’obiettivo culturale e politico della propria ricerca: fornire strumenti di interpretazione e di azione al formarsi di quella che lui chiama una coalizione egualitaria, che si ponga l’obiettivo di superare il capitalismo verso una società giusta per il XXI secolo, basata sul socialismo democratico partecipativo.

L’opera è suddivisa in quattro parti. La prima è dedicata allo studio delle società inegualitarie nella storia. La seconda parte studia le società schiaviste e coloniali. La terza viene dedicata alla grande trasformazione del XX secolo. La quarta è dedicata ad un esteso ripensamento sulle ideologie del conflitto politico. Nell’ultimo capitolo del libro viene sviluppata una proposta per la costruzione di un nuovo stato sociale che richiederà una tassazione equa e un registro finanziario internazionale, per obbligare i ricchi e le grandi aziende a contribuire in modo equo. Il regime attuale di libera circolazione del capitale, istituito a partire dagli anni ottanta e novanta sotto l’influenza dei paesi ricchi (e in particolare dell’Europa), favorisce, inesorabilmente, l’evasione dei miliardari e delle multinazionali di tutto il mondo. Inoltre impedisce alle fragili strutture fiscali dei paesi poveri, nati dalla decolonizzazione, di sviluppare imposte giuste, e questo rende più fragile la costruzione dello stato. La sua proposta di circolazione della proprietà e di imposta progressiva sui redditi è la base ed il cuore del suo programma di riforma e di  democratizzazione delle istituzioni.

 

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