Collaboratori e testimoni di giustizia
20 Maggio 2019
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Collaboratori e testimoni di giustizia

A partire dagli anni  ‘80 si è sempre di più intensificato tra i detenuti o i latitanti il desiderio di “purificare” la propria vita aderendo alle possibilità che la legalità offriva. È iniziata la stagione dei “collaboratori di giustizia” e dei “testimoni di giustizia”. Persone che, volendo ricevere benefici processuali o per sensibilità personali, decidono di porsi dalla parte dello Stato e della legalità, avendo in precedenza calpestato suoli, idee, con azioni di illegalità.

Come spesso capita, in diversi campi, si fa un po’ di confusione e si usano termini inappropriati non essendo a conoscenza della materia di cui si parla. Per esempio, indifferenziatamente, si usa il termine “pentito” per tutti coloro che invece sono o “collaboratori di giustizia” o “testimoni di giustizia”. I primi sono coloro che avendo commesso delitti o avendo partecipato a cosche malavitose, ad un certo punto prendono la decisione di collaborare e mettersi dalla parte dello Stato per favorire la legalità. I secondi sono coloro che hanno assistito ad atti delittuosi, sono a conoscenza di azioni malavitose e si rendono disponibili ad offrire la loro testimonianza. I collaboratori sottoscrivono un “contratto” con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall’interno dell’organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri familiari. I testimoni invece forniscono la loro testimonianza relativamente all’accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione godono di una protezione da parte degli organi dello Stato appositamente creati. In molti casi si tratta di commercianti che si rifiutano di pagare il “pizzo” o di persone non più disposte a continuare a pagare interessi a tassi usurai concessi loro da membri dell’organizzazione mafiosa.

Alla base di questo desiderio di “riscatto” c’è da sottolineare come il tributo da pagare per entrare nei sistemi collaborativi è davvero alto. Si devono accettare nomi sostitutivi, di copertura, rispetto alla propria identità originaria, si debbono lasciare proprietà ed essere disposti a trasferirsi in altre località. In genere si guardano e si criticano i vantaggi che derivano da questo stato di collaborazione ma si ignorano le rinunce, i disagi, le difficoltà a vivere una vita serena e tranquilla come quella di tutti. Addirittura c’è chi, vigliaccamente, definisce i collaboratori “parassiti” dello Stato perché da esso ricevono uno stipendio mensile, gli oneri di affitto, rimborsi vari e altre agevolazioni fiscali. Ma non si tiene in debito conto cosa hanno lasciato loro e i loro familiari in ordine agli affetti, alle proprietà, alle attività intraprese. Senza contare i limiti a cui, nonostante abbiano nomi di copertura, sono costretti: non poter aprire un conto in banca, non poter effettuare contratti, non avere la libertà di spostarsi senza chiedere permessi e ricevere conferme e tante altre limitazioni. Ma la cosa più grave è che comunque la loro vita è sempre a rischio perché non hanno una scorta che continuativamente li monìtora, bensì controlli periodici e sporadici.

Gli ultimi eventi della cronaca nazionale [Pesaro, Natale 2018, uccisione di Marcello Bruzzese, fratello di un collaboratore di giustizia] ci hanno fatto scoprire, amaramente, come tutti questi timori che mettono a repentaglio la vita dei collaboratori, dei testimoni di giustizia e dei loro familiari, è realtà e non fantascienza. Una legge lacunosa, obsoleta, sorpassata, ricca di criticità spaventose e, quindi, sostanzialmente inutile, è quella che regola la vita di queste persone che al momento in Italia risulta essere un esercito. Si parla di più di seimila persone, familiari compresi. Quando la legge è stata concepita e posta in essere non c’era la dimestichezza e la presenza massiccia e capillare di internet; oggi, chiunque, con i motori di ricerca è in grado di sapere e conoscere, scoprire che gli indirizzi di copertura sono riferiti a caserme o altri luoghi riconducibili allo Stato, vanificando in questo modo la segretezza e la riservatezza. Gli stessi affitti che vengono stipulati direttamente dalle autorità ministeriali fanno nascere sospetti e in genere anche se ci sono trasferimenti di tanto in tanto comunque sono case che vengono abitate ed adibite per queste persone, le agenzie lo sanno, gli affittuari lo stesso e tutto a scapito della sicurezza delle persone. Sono case “contaminate”.

È chiaro che quando la camorra, la ‘ndrangheta, la mafia o la sacra corona unita uccidono un collaboratore per loro è festa grande, brindano, perché affermano il dominio della forza, della rivendicazione e vogliono dare una “lezione” allo Stato e a coloro che vorrebbero collaborare per dissuaderli e far vedere che loro sono più forti, invincibili, anche a distanza di anni, di molti anni. Essi non dimenticano. Inseguono. Attendono e poi, inesorabilmente, intervengono causando morte, lutti, pianti, perdite di vite umane, devastazioni sentimentali. In questo modo credono di avere il dominio della situazione. Seminando morte e panico. Ormai le associazioni malavitose hanno allargato la loro geografia contaminando altri territori che non sono solo quelli di origine ma si sono diffusi a macchia d’olio in territorio nazionale ed anche internazionale.☺

 

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