comunità di comunità  di Michele Tartaglia
3 Settembre 2013 Share

comunità di comunità di Michele Tartaglia

 

Nella teologia insegnata fino all’altro ieri, si diceva che Gesù ha fondato la chiesa e si pensava che effettivamente ne avesse progettato la gerarchia e la struttura; ci mancava solo che avesse deciso i titoli onorifici del clero. Oggi, grazie a Dio, lo studio delle origini cristiane riporta alla realtà di un percorso complesso e accidentato concluso solo qualche secolo dopo la vita terrena di Gesù. All’inizio non era la chiesa ma la comunità o, meglio, LE comunità, nel senso che in ogni luogo in cui veniva annunciato il vangelo e si costituiva un piccolo gruppo di credenti, lì nasceva una comunità cristiana che si relazionava con le altre, mantenendo tuttavia una forte autonomia, persino dall’apostolo fondatore, come possiamo dedurre leggendo le lettere di Paolo. Ogni gruppo aveva un’identità propria nel senso che non c’era prima la chiesa in astratto o mondiale e poi le piccole comunità derivate, ma le piccole comunità iniziali hanno dovuto fare un percorso per sentirsi membri le une delle altre perché solo così avrebbero salvaguardato l’unità della fede e dello stile di vita. In ciò proprio l’epistolario paolino è testimone, in quanto, partendo dalle lettere sicuramente di Paolo, si arriva a quelle scritte dai suoi discepoli (come Colossesi ed Efesini), in cui si percepisce sempre di più la consapevolezza delle singole comunità di essere parte di un’unica chiesa dalle dimensioni cosmiche.

Scrivendo ai Corinzi, Paolo chiede alla comunità di andare in soccorso di una comunità non fondata da lui, quella di Gerusalemme, per il fatto che da essa hanno ricevuto il dono della fede (2 Cor 8). Esorta i Tessalonicesi a prendere come modello le comunità della Giudea nel sopportare le persecuzioni (1 Ts 2,13-16). Scrive una intera lettera alla comunità di Roma, neppure fondata da lui, alla quale esprime il desiderio di condividere delle riflessioni sulla fede (Rm 1,8-15) e nella quale conosce tante persone che vuole salutare, dimostrando che c’era un continuo interscambio tra le diverse comunità (Paolo scriveva da Corinto), come testimonia l’intero capitolo 16 della lettera. Questa esigenza resta anche dopo la morte dell’apostolo, come emerge dalle lettere a lui attribuite: in Colossesi si raccomanda di scambiarsi la lettera (per noi perduta) con la comunità di Laodicea a cui era stata inviata una lettera simile. Ed è proprio in questa lettera e in quella agli Efesini che viene elaborata l’idea che si imporrà in seguito di una chiesa cosmica il cui capo è Cristo (Col 1,18 ed Ef 4,15-16).

Il fatto significativo che emerge dalle lettere di Paolo è che queste comunità, nonostante siano a volte molto distanti tra loro, anche migliaia di chilometri, si sentono in relazione tra loro, corresponsabili le une delle altre, anche per gli aspetti più materiali, non solo per questioni di fede: “Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza e vi sia uguaglianza” (2 Cor 8,14). La distanza geografica non impedisce di riconoscersi responsabili del bene gli uni degli altri e proprio questo ha poi portato alla consapevolezza sempre più chiara che la chiesa è una, anche se sparsa nel mondo intero. I problemi sono sorti quando, lungo la storia, le singole chiese si sono identificate con i territori nazionali, non per esprimere le peculiarità, ma per creare opposizione anche nella fede tra i diversi popoli (l’adagio cuius regio eius religio ne è testimone), per cui l’appartenenza all’unica fede in Cristo non è stata più criterio per superare le divisioni ma piuttosto Cristo è stato diviso per obbedire agli istinti egoistici e separatisti delle diverse comunità umane e religiose. Lo stile campanilistico è riemerso a tutti i livelli, come ci insegna anche al storia dei Comuni in Italia che si sono fatti guerra per secoli e, pur avendo la stessa fede in Dio, hanno usato i santi o le madonne per segnare la differenza reciproca.

Questa attitudine è rimasta nel nostro DNA culturale se continuiamo a pretendere che anche piccoli centri morenti continuino a conservare una autonomia illusoria pensando che tutto ciò che è condiviso con le comunità vicine costituisce un depauperamento di sé. Le riflessioni di Paolo ci insegnano che la costruzione di grandi istituzioni non nasce da origini mitiche e astratte ma dallo sforzo concreto che parte dal basso, dai bisogni a cui si risponde con la solidarietà e la reciprocità. Solo quando si condivide a partire dal poco, i grandi sogni di una unione globale possono diventare realtà. Altrimenti, come ci ha ricordato anche papa Francesco, l’unica cosa che viene globalizzata è l’indifferenza, il vero frutto delle difese campanilistiche e stupide cui siamo avvezzi.☺

mike.tartaglia@virgilio.it

 

 

 

 

 

 

 

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