Il cammino del magistero dei vescovi italiani sul mezzogiorno, sebbene segnato da un procedere lento e faticoso, si è arricchito dopo il documento collegiale del 1989 Chiesa italiana e mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, di numerosi interventi delle conferenze episcopali regionali. Ne citiamo solo alcuni: i vescovi pugliesi Dalla disgregazione alla comunione (1993); i vescovi campani Messaggio sulla disoccupazione (1996); i vescovi siciliani Finché non sorga come stella la sua giustizia nel 50° dello Statuto della Regione (1996); i vescovi lucani Le attese della povera gente (2008); i vescovi calabresi Cristo nostra speranza. Testimoni di corresponsabilità per servire questa terra su strade di liberazione (2006). Se ne possono discutere i contenuti, rilevarne i limiti o le carenze, ma ben più opportuno è chiedersi, invece, cosa non ha funzionato all’interno delle chiese, se questo magistero è rimasto nelle carte e non ha generato una storia di liberazione e di crescita del Sud.
La voci critiche sono molte. Ne riprendo una, non malevola ma amareggiata e intrisa di speranza. Nella presentazione del libro dell’on. Isaia Sales “I preti mafiosi” (Baldini Castoldi Dalai editore 2010) sul tema delle mafie – definite dai vescovi “cancro” del meridione – si legge che «senza il sostegno culturale della Chiesa le mafie non si sarebbero potute radicare così profondamente nel sud del nostro paese. Il successo di queste organizzazioni criminali rappresenta dunque l’insuccesso della chiesa cattolica ma, al tempo stesso, senza una chiesa realmente cristianamente antimafiosa la lotta per la sconfitta definitiva delle mafie sarà ancora lunga”.
Mi pare di poter delineare tre grandi limiti che hanno creato e perpetuano discrasia tra una presa di coscienza e la realizzazione di una nuova prassi e, infine, la consapevolezza di un proprio ruolo specifico tipicamente ecclesiale.
Una chiesa a due piani
Un “piano nobile” ovvero un magistero, tardivo ma finalmente sicuro e chiaro, testimoni coraggiosi e limpidi, accanto a convegni, studi, dibattiti a cui la chiesa partecipa e da cui trae linfa e consapevolezza, e un “piano terra” della pastorale ordinaria, delle parrocchie della vita quotidiana delle comunità credenti; un “pianterreno” di indifferenza o addirittura di sorda irritazione. Ma la risposta della comunità cristiana dipende per il novanta per cento da questo piano terra.
La sfida del sacro
Il corto circuito del passaggio dall’arcaicità alla post-modernità della società dei consumi aveva prodotto il repentino salto dai costumi tradizionali a quelli imposti dalla cultura consumistico-mediatica, senza il passaggio della modernizzazione di modelli economici, imprenditoriali e di servizi adeguati -un benessere senza sviluppo, se non a macchia di leopardo; e lo sviluppo “esogeno”, importato ma non radicato, aveva trovato impreparato il mezzogiorno. L’irruzione del “sacro” post moderno, di tipo naturalistico, è venuto ad incontrarsi con quanto di più ambiguo si nascondeva nella religiosità popolare meridionale, ritenuta una forza e una caratteristica precipua. Mentre il cristianesimo, religione dell’incarnazione, abolisce il fossato che divide il sacro dal profano, la logica del sacro porta a cercare il divino in rituali, luoghi privilegiati, tempi particolari, abbandonando la vita di ogni giorno, con le sue attività “profane”, all’insignificanza religiosa. Ciò porta a non avvertire più la contraddizione tra la formale adesione alla fede e i peccati contro la giustizia, per non parlare dei peccati di omissione, delle denunce non fatte, delle mancate prese di posizione di fronte a tutte le grandi e piccole sopraffazioni. Nella pastorale ordinaria, salvo sparute eccezioni, è abbastanza raro che confluiscano i problemi del territorio.
La sfida della speranza
La tensione verso il futuro dovrebbe caratterizzare la vita di ogni credente perché tutta la vita è un avvento. Nei territori della Magna Grecia non è mai stato cancellato il potere dell’oscuro Fato. Il problema pastorale maggiore, prima ancora che “dentro” e “fuori” delle comunità, è spesso la pastorale difensiva del “da noi si è fatto sempre così” o laicamente “lascia stare il mondo come si trova”. Di qui la caduta della speranza e della fiducia. Certo il Regno di Dio è già presente, ma come seme in terra (Mc,4.6), come lievito nascosto (Lc 13,20), come padrone che tarda a venire (Lc 12,35) come rete che contiene pesci buoni e non (Mt13,47) come campo dove zizzania e grano crescono insieme (Mt 13,24). L’accusa che gli ebrei rivolgono ai cristiani è quella di aver dimenticato l’attesa del Messia. Un aneddoto ebraico narra che un giovane andò un giorno da un famoso rabbi e gli confessò il suo travaglio: era tentato di farsi cristiano e chiedeva al maestro “E se il Messia fosse venuto davvero?”. Il rabbi non rispose; seduto vicino alla finestra scostò la tenda e guardò fuori. Una vecchia mendicante chiedeva l’elemosina, uno storpio si trascinava nella via, dei ricchi passavano in fretta indifferenti, un uomo picchiava selvaggiamente il suo asino. “No” – disse, lasciando la tenda – Non è ancora venuto!”.
Il ruolo delle chiese del sud
Sul piano dei principi è stato più volte ribadito che la chiesa deve porsi «fuori da ogni collusione con i meccanismi perversi spesso connessi con l’esercizio del potere» e nel «fare propri i problemi della gente e della società… essere profeticamente libera» (vescovi pugliesi). Il problema è se essa è attrezzata ad esercitare questo ruolo profetico, poiché ciò non potrà non comportare un modo diverso di essere delle stesse comunità. Un messaggio di solidarietà civile non si può trasmettere se non si riesce a vivere una “comunione” reale e creativa. Le diocesi stesse sono accostate le une alle altre come mondi chiusi e incomunicabili e le cosiddette “pastorali regionali” (dei rispettivi uffici) rappresentano un momento di cortese conoscenza, ma non esprimono nessuna incidenza sul territorio. Le chiese meridionali non potranno essere alternative alla cultura dell’egoismo e al particolarismo se non saranno all’altezza del proprio ministero di comunione.☺
Il cammino del magistero dei vescovi italiani sul mezzogiorno, sebbene segnato da un procedere lento e faticoso, si è arricchito dopo il documento collegiale del 1989 Chiesa italiana e mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, di numerosi interventi delle conferenze episcopali regionali. Ne citiamo solo alcuni: i vescovi pugliesi Dalla disgregazione alla comunione (1993); i vescovi campani Messaggio sulla disoccupazione (1996); i vescovi siciliani Finché non sorga come stella la sua giustizia nel 50° dello Statuto della Regione (1996); i vescovi lucani Le attese della povera gente (2008); i vescovi calabresi Cristo nostra speranza. Testimoni di corresponsabilità per servire questa terra su strade di liberazione (2006). Se ne possono discutere i contenuti, rilevarne i limiti o le carenze, ma ben più opportuno è chiedersi, invece, cosa non ha funzionato all’interno delle chiese, se questo magistero è rimasto nelle carte e non ha generato una storia di liberazione e di crescita del Sud.
La voci critiche sono molte. Ne riprendo una, non malevola ma amareggiata e intrisa di speranza. Nella presentazione del libro dell’on. Isaia Sales “I preti mafiosi” (Baldini Castoldi Dalai editore 2010) sul tema delle mafie – definite dai vescovi “cancro” del meridione – si legge che «senza il sostegno culturale della Chiesa le mafie non si sarebbero potute radicare così profondamente nel sud del nostro paese. Il successo di queste organizzazioni criminali rappresenta dunque l’insuccesso della chiesa cattolica ma, al tempo stesso, senza una chiesa realmente cristianamente antimafiosa la lotta per la sconfitta definitiva delle mafie sarà ancora lunga”.
Mi pare di poter delineare tre grandi limiti che hanno creato e perpetuano discrasia tra una presa di coscienza e la realizzazione di una nuova prassi e, infine, la consapevolezza di un proprio ruolo specifico tipicamente ecclesiale.
Una chiesa a due piani
Un “piano nobile” ovvero un magistero, tardivo ma finalmente sicuro e chiaro, testimoni coraggiosi e limpidi, accanto a convegni, studi, dibattiti a cui la chiesa partecipa e da cui trae linfa e consapevolezza, e un “piano terra” della pastorale ordinaria, delle parrocchie della vita quotidiana delle comunità credenti; un “pianterreno” di indifferenza o addirittura di sorda irritazione. Ma la risposta della comunità cristiana dipende per il novanta per cento da questo piano terra.
La sfida del sacro
Il corto circuito del passaggio dall’arcaicità alla post-modernità della società dei consumi aveva prodotto il repentino salto dai costumi tradizionali a quelli imposti dalla cultura consumistico-mediatica, senza il passaggio della modernizzazione di modelli economici, imprenditoriali e di servizi adeguati -un benessere senza sviluppo, se non a macchia di leopardo; e lo sviluppo “esogeno”, importato ma non radicato, aveva trovato impreparato il mezzogiorno. L’irruzione del “sacro” post moderno, di tipo naturalistico, è venuto ad incontrarsi con quanto di più ambiguo si nascondeva nella religiosità popolare meridionale, ritenuta una forza e una caratteristica precipua. Mentre il cristianesimo, religione dell’incarnazione, abolisce il fossato che divide il sacro dal profano, la logica del sacro porta a cercare il divino in rituali, luoghi privilegiati, tempi particolari, abbandonando la vita di ogni giorno, con le sue attività “profane”, all’insignificanza religiosa. Ciò porta a non avvertire più la contraddizione tra la formale adesione alla fede e i peccati contro la giustizia, per non parlare dei peccati di omissione, delle denunce non fatte, delle mancate prese di posizione di fronte a tutte le grandi e piccole sopraffazioni. Nella pastorale ordinaria, salvo sparute eccezioni, è abbastanza raro che confluiscano i problemi del territorio.
La sfida della speranza
La tensione verso il futuro dovrebbe caratterizzare la vita di ogni credente perché tutta la vita è un avvento. Nei territori della Magna Grecia non è mai stato cancellato il potere dell’oscuro Fato. Il problema pastorale maggiore, prima ancora che “dentro” e “fuori” delle comunità, è spesso la pastorale difensiva del “da noi si è fatto sempre così” o laicamente “lascia stare il mondo come si trova”. Di qui la caduta della speranza e della fiducia. Certo il Regno di Dio è già presente, ma come seme in terra (Mc,4.6), come lievito nascosto (Lc 13,20), come padrone che tarda a venire (Lc 12,35) come rete che contiene pesci buoni e non (Mt13,47) come campo dove zizzania e grano crescono insieme (Mt 13,24). L’accusa che gli ebrei rivolgono ai cristiani è quella di aver dimenticato l’attesa del Messia. Un aneddoto ebraico narra che un giovane andò un giorno da un famoso rabbi e gli confessò il suo travaglio: era tentato di farsi cristiano e chiedeva al maestro “E se il Messia fosse venuto davvero?”. Il rabbi non rispose; seduto vicino alla finestra scostò la tenda e guardò fuori. Una vecchia mendicante chiedeva l’elemosina, uno storpio si trascinava nella via, dei ricchi passavano in fretta indifferenti, un uomo picchiava selvaggiamente il suo asino. “No” – disse, lasciando la tenda – Non è ancora venuto!”.
Il ruolo delle chiese del sud
Sul piano dei principi è stato più volte ribadito che la chiesa deve porsi «fuori da ogni collusione con i meccanismi perversi spesso connessi con l’esercizio del potere» e nel «fare propri i problemi della gente e della società… essere profeticamente libera» (vescovi pugliesi). Il problema è se essa è attrezzata ad esercitare questo ruolo profetico, poiché ciò non potrà non comportare un modo diverso di essere delle stesse comunità. Un messaggio di solidarietà civile non si può trasmettere se non si riesce a vivere una “comunione” reale e creativa. Le diocesi stesse sono accostate le une alle altre come mondi chiusi e incomunicabili e le cosiddette “pastorali regionali” (dei rispettivi uffici) rappresentano un momento di cortese conoscenza, ma non esprimono nessuna incidenza sul territorio. Le chiese meridionali non potranno essere alternative alla cultura dell’egoismo e al particolarismo se non saranno all’altezza del proprio ministero di comunione.☺
Il cammino del magistero dei vescovi italiani sul mezzogiorno, sebbene segnato da un procedere lento e faticoso, si è arricchito dopo il documento collegiale del 1989 Chiesa italiana e mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, di numerosi interventi delle conferenze episcopali regionali. Ne citiamo solo alcuni: i vescovi pugliesi Dalla disgregazione alla comunione (1993); i vescovi campani Messaggio sulla disoccupazione (1996); i vescovi siciliani Finché non sorga come stella la sua giustizia nel 50° dello Statuto della Regione (1996); i vescovi lucani Le attese della povera gente (2008); i vescovi calabresi Cristo nostra speranza. Testimoni di corresponsabilità per servire questa terra su strade di liberazione (2006). Se ne possono discutere i contenuti, rilevarne i limiti o le carenze, ma ben più opportuno è chiedersi, invece, cosa non ha funzionato all’interno delle chiese, se questo magistero è rimasto nelle carte e non ha generato una storia di liberazione e di crescita del Sud.
La voci critiche sono molte. Ne riprendo una, non malevola ma amareggiata e intrisa di speranza. Nella presentazione del libro dell’on. Isaia Sales “I preti mafiosi” (Baldini Castoldi Dalai editore 2010) sul tema delle mafie – definite dai vescovi “cancro” del meridione – si legge che «senza il sostegno culturale della Chiesa le mafie non si sarebbero potute radicare così profondamente nel sud del nostro paese. Il successo di queste organizzazioni criminali rappresenta dunque l’insuccesso della chiesa cattolica ma, al tempo stesso, senza una chiesa realmente cristianamente antimafiosa la lotta per la sconfitta definitiva delle mafie sarà ancora lunga”.
Mi pare di poter delineare tre grandi limiti che hanno creato e perpetuano discrasia tra una presa di coscienza e la realizzazione di una nuova prassi e, infine, la consapevolezza di un proprio ruolo specifico tipicamente ecclesiale.
Una chiesa a due piani
Un “piano nobile” ovvero un magistero, tardivo ma finalmente sicuro e chiaro, testimoni coraggiosi e limpidi, accanto a convegni, studi, dibattiti a cui la chiesa partecipa e da cui trae linfa e consapevolezza, e un “piano terra” della pastorale ordinaria, delle parrocchie della vita quotidiana delle comunità credenti; un “pianterreno” di indifferenza o addirittura di sorda irritazione. Ma la risposta della comunità cristiana dipende per il novanta per cento da questo piano terra.
La sfida del sacro
Il corto circuito del passaggio dall’arcaicità alla post-modernità della società dei consumi aveva prodotto il repentino salto dai costumi tradizionali a quelli imposti dalla cultura consumistico-mediatica, senza il passaggio della modernizzazione di modelli economici, imprenditoriali e di servizi adeguati -un benessere senza sviluppo, se non a macchia di leopardo; e lo sviluppo “esogeno”, importato ma non radicato, aveva trovato impreparato il mezzogiorno. L’irruzione del “sacro” post moderno, di tipo naturalistico, è venuto ad incontrarsi con quanto di più ambiguo si nascondeva nella religiosità popolare meridionale, ritenuta una forza e una caratteristica precipua. Mentre il cristianesimo, religione dell’incarnazione, abolisce il fossato che divide il sacro dal profano, la logica del sacro porta a cercare il divino in rituali, luoghi privilegiati, tempi particolari, abbandonando la vita di ogni giorno, con le sue attività “profane”, all’insignificanza religiosa. Ciò porta a non avvertire più la contraddizione tra la formale adesione alla fede e i peccati contro la giustizia, per non parlare dei peccati di omissione, delle denunce non fatte, delle mancate prese di posizione di fronte a tutte le grandi e piccole sopraffazioni. Nella pastorale ordinaria, salvo sparute eccezioni, è abbastanza raro che confluiscano i problemi del territorio.
La sfida della speranza
La tensione verso il futuro dovrebbe caratterizzare la vita di ogni credente perché tutta la vita è un avvento. Nei territori della Magna Grecia non è mai stato cancellato il potere dell’oscuro Fato. Il problema pastorale maggiore, prima ancora che “dentro” e “fuori” delle comunità, è spesso la pastorale difensiva del “da noi si è fatto sempre così” o laicamente “lascia stare il mondo come si trova”. Di qui la caduta della speranza e della fiducia. Certo il Regno di Dio è già presente, ma come seme in terra (Mc,4.6), come lievito nascosto (Lc 13,20), come padrone che tarda a venire (Lc 12,35) come rete che contiene pesci buoni e non (Mt13,47) come campo dove zizzania e grano crescono insieme (Mt 13,24). L’accusa che gli ebrei rivolgono ai cristiani è quella di aver dimenticato l’attesa del Messia. Un aneddoto ebraico narra che un giovane andò un giorno da un famoso rabbi e gli confessò il suo travaglio: era tentato di farsi cristiano e chiedeva al maestro “E se il Messia fosse venuto davvero?”. Il rabbi non rispose; seduto vicino alla finestra scostò la tenda e guardò fuori. Una vecchia mendicante chiedeva l’elemosina, uno storpio si trascinava nella via, dei ricchi passavano in fretta indifferenti, un uomo picchiava selvaggiamente il suo asino. “No” – disse, lasciando la tenda – Non è ancora venuto!”.
Il ruolo delle chiese del sud
Sul piano dei principi è stato più volte ribadito che la chiesa deve porsi «fuori da ogni collusione con i meccanismi perversi spesso connessi con l’esercizio del potere» e nel «fare propri i problemi della gente e della società… essere profeticamente libera» (vescovi pugliesi). Il problema è se essa è attrezzata ad esercitare questo ruolo profetico, poiché ciò non potrà non comportare un modo diverso di essere delle stesse comunità. Un messaggio di solidarietà civile non si può trasmettere se non si riesce a vivere una “comunione” reale e creativa. Le diocesi stesse sono accostate le une alle altre come mondi chiusi e incomunicabili e le cosiddette “pastorali regionali” (dei rispettivi uffici) rappresentano un momento di cortese conoscenza, ma non esprimono nessuna incidenza sul territorio. Le chiese meridionali non potranno essere alternative alla cultura dell’egoismo e al particolarismo se non saranno all’altezza del proprio ministero di comunione.☺
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