Contro la miseria di Giovanni Perazzoli
2 Luglio 2015 Share

Contro la miseria di Giovanni Perazzoli

C’era una volta un giovane, che andò via da casa e arrivò in un paese lontano …

Potrebbe cominciare così la favola del welfare che è raccontata nel bel saggio Contro la miseria, di G. Perazzoli, Laterza, 2014. Sennonché non è una favola, almeno per i giovani che non vivono in Italia. È il 1984, il nostro Antonio, 28 anni, sbarca in Inghilterra per imparare l’inglese. Comincia a mantenersi con lavoretti in nero, ma qualcuno gli consiglia di rivolgersi all’Unemployment Benefits Office. Detto fatto. Quindici giorni dopo, senza aver mai lavorato legalmente e senza essere inglese, inizia a percepire un sussidio di disoccupazione settimanale che include anche il pagamento per la sua stanza in un bel quartiere. Ma non basta. Gli pagano anche la lavanderia. Dopo qualche giorno arriva un ispettore che controlla se è ben alloggiato. Antonio ha poi diritto a una serie di sconti: al cinema, nei centri sportivi, nei centri culturali. Ma soprattutto, pagando una piccola somma può frequentare una prestigiosa scuola di lingua. Gli altri studenti pagano salato, ma lui no, perché è disoccupato. Dal 1984 la situazione non è sostanzialmente cambiata.

E il resto dell’Europa (tranne l’Italia, perché perfino la Grecia ha qualcosa meglio di noi) sta tutto allineato sul modello inglese, dove d’altronde, con Beveridge, è nata nel 1948 l’idea e la prassi del reddito minimo garantito. Ma che cosa è questa prassi consolidata che solo l’Italia considera un “ufo”? È “una serie di misure che garantiscono a chi cerca un lavoro di non cadere al di sotto di un minimo vitale”. Misure che non esistono in Italia, perché non si devono confondere, per esempio, con la cassa integrazione.

“Gli aspetti essenziali del reddito minimo garantito infatti sono: il carattere illimitato nella durata del sussidio (dura tanto quanto dura la ricerca di un lavoro, anche diversi anni) e la sua universalità condizionata solo dalla disponibilità a cercare un lavoro e dall’ accertamento dei mezzi (i ricchi non ne hanno diritto, ma non è concesso solo ai “poveri”) e non è necessario fare riferimento (ndr. qui casca l’asino!) a intermediari politici o sindacali”. Perciò, forse, politici e sindacalisti non ne sono tifosi sfegatati.

Il libro di Perazzoli analizza perfino i dettagli dei welfare europei. E spuntano dati curiosi ma eloquenti. Olanda, per esempio. E ci trovi anche i soldi che consentono una settimana di vacanza all’anno. Inghilterra, ad esempio. E ci trovi la protesta delle case discografiche contro i sei mesi concessi da Blair ai giovani per cercare lavoro. “Troppo poco sei mesi, dicono i discografici. I giovani non hanno tempo sufficiente per provare con i loro complessi. E i talenti possono restare inespressi”.

Sento già borbottare qualche lettore. Prima obiezione: ma quanto ci costa questo “bengodi”? Risposta. Tito Boeri ha calcolato in circa 10 miliardi di euro l’anno solo il trasferimento di denaro. Poi ci sono i benefit (casa, sanità, formazione ecc.). Ma, tanto per sapere, quanto costano le pensioni di invalidità al bilancio pubblico? Ricolfi risponde: 30 miliardi di euro. E un terzo di esse sono fasulle. Quindi, la spesa già sarebbe coperta. Ma non è tutto, perché “in Italia … esistono forme inique e corporative di sussidi, come la disoccupazione agricola, la mobilità, la mobilità lunga, la cassa integrazione, i lavori socialmente utili. Si tratta di schemi categoriali che presuppongono un’esperienza lavorativa, che vanno rinnovati, prorogati, creando una situazione di incertezza continua, ma individuando sempre dei clientes”. Capita l’antifona? Ma la domanda la farei io agli scettici: quanto ci costa la corruzione? E la mafia? E l’evasione fiscale?

Seconda obiezione: i beneficiari se ne starebbero anni e anni con le mani in mano, magari lavoricchiando anche un po’ in nero. Qui Perazzoli risponde chiedendosi se per la società è più dannoso “mantenere” un fannullone con un sussidio pubblico, ma con la “tentazione” continua di un lavoro concreto e dignitoso oppure inventarsi surrogati come le fasulle invalidità o le scrivanie superflue, clientelari e simili (cioè lavori artificiali). Certo, qui l’autore ragiona anche sul filo del paradosso. Ma resta il fatto che nel paese dei cento campanili i modi per mungere soldi pubblici con canali privilegiati e assistere i lavoratori (o ex) ce ne sono mille. Zero invece per i giovani che il lavoro lo sognano (quando riescono a dormire). Insomma, i soldi non mancano. E i fannulloni non aumenterebbero né sarebbero trattati meglio.

Manca invece – et pour cause – la volontà di affrontare con respiro europeo la faccenda, cominciando dal cancellare certe voci di spesa assistenzialistiche, che garantiscono però il potere di intermediazione dei politici, nazionali e locali, e in parte dei sindacati. Il reddito minimo garantito, insomma, è concepito in Europa come strumento che favorisce la libertà del cittadino di scegliere – entro tempi ragionevoli – il lavoro preferito, di intraprendere, di realizzarsi insomma. E farlo, senza chiedere né la paghetta ai genitori né l’elemosina a potenti. Il vero nemico del reddito minimo, in Italia, denuncia Perazzoli, non è il bilancio dello stato ma la politica che “compra” il consenso.

Conclusione, non dell’autore, ma del recensore: lo stato sociale è l’autentica identità positiva dell’Europa ma l’Italia non lo avrà mai perché il welfare vero abbatte il clientelismo, il voto di scambio, il familismo amorale. Non lo avrà mai perché si dovrebbero prima stroncare mafie e corruzione e disboscare la selva dei privilegi, al fine di trovare denaro per sussidi universali e indipendenti dalla mediazione di soggetti “interessati”. Lottare – però – seriamente contro le mafie (con o senza lupara) è un lusso che ormai non ci possiamo permettere. Passiamo per gufi. O per fessi. Se la politica addirittura ammonisce la Consulta di fare i conti prima di emettere una sentenza che tutela i diritti, figuratevi quanti conti si devono fare prima di dare un dispiacere a quella mafia che riempie le banche di soldi sporchi!

Ma Perazzoli è meno pessimista del vostro recensore. Leggere per credere.☺

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