Costituente per lo sviluppo
3 Febbraio 2015 Share

Costituente per lo sviluppo

Alla fine degli anni novanta la struttura liberale dell’economia internazionale risultava profondamente modificata. La tendenza verso la liberalizzazione del commercio si era invertita e i principi del multilateralismo, definiti a Bretton Wood nel 1944, sono stati sostituiti da bilateralismo e dalla discriminazione. Con il venir meno del sistema dei cambi fissi, la conflittualità degli interessi ha determinato grossi scontri sui valori delle parità e sulle più importanti questioni monetarie. Nel frattempo l’avvicendamento, tra USA e Giappone, al vertice del potere finanziario cominciò a porre il problema del riconoscimento  della leadership e della potenzialità di stabilità nel sistema finanziario internazionale. Partiamo da lontano per assumere la consapevolezza delle tendenze, allora emerse, per interpretare il presente nelle conseguenze che stiamo soffrendo.

L’economia internazionale è caratterizzata da sempre maggiore interdipendenza tra le economie dei singoli paesi e da uno spropositato potere delle forze di mercato con relativa riduzione del potere di regolazione economica internazionale. Ci si è accorti, finalmente, che l’interdipendenza non implica automaticamente una evoluzione verso l’integrazione delle ragioni dell’efficienza e della solidarietà della economia internazionale. Si sa che gli effetti del comportamento di ciascuno o di ciascuna nazione, si trasmettono sugli altri e quelli degli altri si trasmettono sul proprio. Benché consapevoli, le nazioni e soprattutto i grandi operatori finanziari tendono a comportarsi e ad agire secondo propri e specifici interessi. È conseguenza della peculiarità della società allora definita “post-industriale”: una società senza frontiere, nella quale i mercati sono mondiali e i soggetti del mercato tendono a sfuggire al controllo dei singoli stati. Il risultato è una disarticolazione con due problemi irrisolti.

Da un lato una società senza stato: la società dei mercati o la business community, retta da una nuova lex mercatoria, consolida le sue dimensioni planetarie ed accentra in sé anche le funzioni normative tramite le camere arbitrali internazionali nelle quali – non più nelle corti internazionali o statali – approda alla soluzione delle controversie. Dall’altro, la moltitudine delle società nazionali, organizzate in stato, sono per natura portatrici di interessi che non trovano rappresentanza nelle società dei mercati, e, nel frattempo, sono esautorate progressivamente dalle funzioni di controllo dei flussi di ricchezza.

In quegli anni si trovava in posizione intermedia la Comunità Europea. Come vera comunità internazionale, non statuale ma associativa di stati, destinata, perciò, a ridurre il peso politico individuale delle nazioni, avrebbe potuto essere una comunità capace di contendere e contenere il potere della business community. Ma con la bocciatura del processo costituzionale, si è tornati indietro ad una semplice comunità finanziaria e mercantile, sposando in pieno la regola di competizione interna fra gli stati, mentre sarebbe stato necessario un processo inverso. Oggi l’Europa è sull’orlo dello sfaldamento perché gli interessi economico-finanziari competitivi hanno cancellato la solidarietà convergente verso la direzione di una vera politica europea unica e solidale. Non basta agire, con regole vincolanti, in modo coordinato. Quello che più si richiede è la realizzazione di una mutua e comune cooperazione in cui i soggetti e le nazioni accettino di riconoscersi uguali nelle potenzialità di partecipazione responsabile allo sviluppo. Si tratta di mettere i vari popoli nelle condizioni fattuali di potersi inserire con ruoli attivi nel processo di scambio internazionale.

Si è giunti all’appuntamento del secolo XXI con due modelli di ordine mondiale: l’ordine geo-politico, basato sugli stati nazionali, sempre più svuotati di potere reale, e l’ordine socio-ecoomico orientato verso i mercati con predominanza di quello finanziario deregolato, ovvero senza più vincoli verso le comunità nazionali. Nelle mani di quest’ultimo si è accumulato un potere privatistico (sono soggetti privati che rispondono solo agli azionisti) che aggredisce e soggioga la vita degli stati e, tramite la leva finanziaria speculativa, a dir vero usuraia, impedisce a questi di assolvere ai loro compiti fondamentali: promuovere lo sviluppo economico e l’uguaglianza di condizione dei cittadini, garantire la possibilità e la dignità del lavoro, assicurare a tutti i servizi essenziali alla vita: salute, formazione culturale, tutela delle fragilità, cittadinanza democratica effettiva. L’intersezione contemporanea di questi due modelli di “ordine” crea problemi nuovi.

Finora le azioni delle nazioni ricche e industrializzate rispetto alle più povere, tramite la Banca Mondiale, il FMI  e altri soggetti, sono state in buona sostanza funzionali alla competizione tra i paesi ricchi, rafforzando la tendenza verso un modello decisionale internazionale gerarchico e olipolistico. Dagli anni ‘90 fino all’implosione finanziaria del primo decennio del secolo attuale torna al centro il problema del modello di sviluppo, questione vitale per il sud del mondo, ma oggi di estrema urgenza anche per il nord di esso. Lo sviluppo da mettere in agenda è quello in grado di ripensare la sua qualità, assumendo un’immagine di uomo più globale e meno riduttiva, e di riprogettare la sua estensione sul pianeta, attraverso e non contro, le differenze del pianeta. Può intravvedersi solo intervenendo sulle regole del gioco, pensate esclusivamente a vantaggio di pochi. Non serve insistere sull’etica dei comportamenti economici se non si interviene sull’etica delle istituzioni economiche e finanziarie. Se non si modificano certe regole del gioco e non si interviene  sui meccanismi generatori di distorsioni e di ineguaglianze strutturali, l’appello a comportamenti etici non può che risultare vano e inascoltato.

Una Costituente mondiale dello sviluppo (Zamagni) richiede che si ripensino e si modifichino le relazioni tra mercato/finanza, stato e società civile, percepita come articolato di soggetti collettivi intermedi. Questi tre termini rappresentano tre vertici o tre modi in cui gli uomini possono porsi in relazione gli uni con gli altri. Urge la sfida di ricombinare in modo nuovo questi tre vertici superando le fatali esasperazioni sia dei liberisti sia dei rimpianti statalismi.

Proprio perché gli uomini condividono comune identità e comune sorte nell’unica famiglia umana possono essere in grado di raggiungere un vero consenso sulle questioni di grande rilevanza vitale. Una grande alleanza per lo sviluppo equo e solidaristico è tra queste vitali questioni, non più rinviabile, né delegabile al potere di pochi. ☺

 

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