Una considerazione preliminare presa a prestito da Alfonso Desiata, imprenditore di fama nazionale, scomparso nel 2006, di origine molisana: “in ogni epoca c'è una cultura predominante che tende a imporre la propria visione del mondo e il proprio linguaggio alle altre; a seconda dei periodi il linguaggio comunque è intriso di metafore che provengono per esempio dalla religione o dall'agricoltura. Oggi indubbiamente tale egemonia appare esercitata dall'economia”.
Che senso ha chiamare, ad esempio, i voti degli studenti crediti? Perché trasferire le parole dell’economia al mondo della cultura o alla gestione dei servizi alla persona? Quanto è corretto chiamare e considerare i malati come clienti?
Questo modo di esprimersi certamente non è estraneo ad un nuovo progetto di società che vede le relazioni umane in funzione di risultati da conseguire, che pone l’accento sulla logica dello scambio finalizzato esclusivamente al profitto.
E quindi utilizziamo parole trasferendole da un campo semantico ad un altro, come nel caso del vocabolo sul quale mi soffermo questa volta..
Se qualcuno di voi ha preso parte a convegni o corsi di formazione, ha potuto senz’altro sperimentare l’abitudine di coniugarne i lavori attraverso sottogruppi definiti con termine anglofono “workshop” [pronuncia: uorchsciop].
Perché questo appellativo per dei comuni gruppi di studio o seminari, che da sempre costituiscono l’anima di un congresso?
Una prima risposta al quesito potrebbe esserci fornita dall’etimologia del vocabolo: letteralmente esso traduce “negozio del lavoro”, essendo costituito dai termini work [pronuncia: uorch] (“lavoro”) e shop [pronuncia: sciop] (“negozio”). Ci si attende che tali gruppi si impegnino, studino, lavorino appunto, per elaborare documenti e proposte che l’assemblea intera dovrà poi fare propri ed approvare o respingere. Impegnarsi quindi, lavorare per produrre qualcosa che possa essere posto al servizio di tutti. L’accezione positiva del termine è rafforzata anche dal secondo significato, più concreto, di workshop; il vocabolo infatti sta ad indicare il luogo “fisico” in cui una attività si svolge, il laboratorio, la bottega in cui il lavoro viene eseguito e da cui vengono fuori i prodotti finiti. Laboratorio, non soltanto luogo di esecuzione di ciò che è stato predeterminato, bensì luogo in cui si progetta, si dà corpo ad idee, si dà spazio e azione alla creatività. Vero “negozio del lavoro”!
Cosa rimane di tutto questo nella società contemporanea? Esiste ancora quella società che discende direttamente dall’industrializzazione, cui il mondo anglosassone (Gran Bretagna dapprima, Stati Uniti successivamente) ha offerto un notevole contributo?
Quanto somigliano i cambiamenti in atto – e non solo a seguito della recente crisi economica – nel modo di concepire il lavoro, nelle condizioni della manodopera, nella sicurezza, nei contratti, all’idea di laboratorio come espressione delle più alte capacità dell’uomo?
Il sistema economico che oggi domina la nostra società sembra beffarsi dei diritti dei lavoratori. Precari, a termine, sottopagati, al nero, cassaintegrati, licenziati. Secondo la definizione fornita dal giornalista Federico Rampini l’economia è diventata ormai la distruzione creatrice dal cui turbine implacabile dobbiamo salvare l’unica risorsa: la centralità dell’ individuo.☺
dario.carlone@tiscali.it
Una considerazione preliminare presa a prestito da Alfonso Desiata, imprenditore di fama nazionale, scomparso nel 2006, di origine molisana: “in ogni epoca c'è una cultura predominante che tende a imporre la propria visione del mondo e il proprio linguaggio alle altre; a seconda dei periodi il linguaggio comunque è intriso di metafore che provengono per esempio dalla religione o dall'agricoltura. Oggi indubbiamente tale egemonia appare esercitata dall'economia”.
Che senso ha chiamare, ad esempio, i voti degli studenti crediti? Perché trasferire le parole dell’economia al mondo della cultura o alla gestione dei servizi alla persona? Quanto è corretto chiamare e considerare i malati come clienti?
Questo modo di esprimersi certamente non è estraneo ad un nuovo progetto di società che vede le relazioni umane in funzione di risultati da conseguire, che pone l’accento sulla logica dello scambio finalizzato esclusivamente al profitto.
E quindi utilizziamo parole trasferendole da un campo semantico ad un altro, come nel caso del vocabolo sul quale mi soffermo questa volta..
Se qualcuno di voi ha preso parte a convegni o corsi di formazione, ha potuto senz’altro sperimentare l’abitudine di coniugarne i lavori attraverso sottogruppi definiti con termine anglofono “workshop” [pronuncia: uorchsciop].
Perché questo appellativo per dei comuni gruppi di studio o seminari, che da sempre costituiscono l’anima di un congresso?
Una prima risposta al quesito potrebbe esserci fornita dall’etimologia del vocabolo: letteralmente esso traduce “negozio del lavoro”, essendo costituito dai termini work [pronuncia: uorch] (“lavoro”) e shop [pronuncia: sciop] (“negozio”). Ci si attende che tali gruppi si impegnino, studino, lavorino appunto, per elaborare documenti e proposte che l’assemblea intera dovrà poi fare propri ed approvare o respingere. Impegnarsi quindi, lavorare per produrre qualcosa che possa essere posto al servizio di tutti. L’accezione positiva del termine è rafforzata anche dal secondo significato, più concreto, di workshop; il vocabolo infatti sta ad indicare il luogo “fisico” in cui una attività si svolge, il laboratorio, la bottega in cui il lavoro viene eseguito e da cui vengono fuori i prodotti finiti. Laboratorio, non soltanto luogo di esecuzione di ciò che è stato predeterminato, bensì luogo in cui si progetta, si dà corpo ad idee, si dà spazio e azione alla creatività. Vero “negozio del lavoro”!
Cosa rimane di tutto questo nella società contemporanea? Esiste ancora quella società che discende direttamente dall’industrializzazione, cui il mondo anglosassone (Gran Bretagna dapprima, Stati Uniti successivamente) ha offerto un notevole contributo?
Quanto somigliano i cambiamenti in atto – e non solo a seguito della recente crisi economica – nel modo di concepire il lavoro, nelle condizioni della manodopera, nella sicurezza, nei contratti, all’idea di laboratorio come espressione delle più alte capacità dell’uomo?
Il sistema economico che oggi domina la nostra società sembra beffarsi dei diritti dei lavoratori. Precari, a termine, sottopagati, al nero, cassaintegrati, licenziati. Secondo la definizione fornita dal giornalista Federico Rampini l’economia è diventata ormai la distruzione creatrice dal cui turbine implacabile dobbiamo salvare l’unica risorsa: la centralità dell’ individuo.☺
Una considerazione preliminare presa a prestito da Alfonso Desiata, imprenditore di fama nazionale, scomparso nel 2006, di origine molisana: “in ogni epoca c'è una cultura predominante che tende a imporre la propria visione del mondo e il proprio linguaggio alle altre; a seconda dei periodi il linguaggio comunque è intriso di metafore che provengono per esempio dalla religione o dall'agricoltura. Oggi indubbiamente tale egemonia appare esercitata dall'economia”.
Che senso ha chiamare, ad esempio, i voti degli studenti crediti? Perché trasferire le parole dell’economia al mondo della cultura o alla gestione dei servizi alla persona? Quanto è corretto chiamare e considerare i malati come clienti?
Questo modo di esprimersi certamente non è estraneo ad un nuovo progetto di società che vede le relazioni umane in funzione di risultati da conseguire, che pone l’accento sulla logica dello scambio finalizzato esclusivamente al profitto.
E quindi utilizziamo parole trasferendole da un campo semantico ad un altro, come nel caso del vocabolo sul quale mi soffermo questa volta..
Se qualcuno di voi ha preso parte a convegni o corsi di formazione, ha potuto senz’altro sperimentare l’abitudine di coniugarne i lavori attraverso sottogruppi definiti con termine anglofono “workshop” [pronuncia: uorchsciop].
Perché questo appellativo per dei comuni gruppi di studio o seminari, che da sempre costituiscono l’anima di un congresso?
Una prima risposta al quesito potrebbe esserci fornita dall’etimologia del vocabolo: letteralmente esso traduce “negozio del lavoro”, essendo costituito dai termini work [pronuncia: uorch] (“lavoro”) e shop [pronuncia: sciop] (“negozio”). Ci si attende che tali gruppi si impegnino, studino, lavorino appunto, per elaborare documenti e proposte che l’assemblea intera dovrà poi fare propri ed approvare o respingere. Impegnarsi quindi, lavorare per produrre qualcosa che possa essere posto al servizio di tutti. L’accezione positiva del termine è rafforzata anche dal secondo significato, più concreto, di workshop; il vocabolo infatti sta ad indicare il luogo “fisico” in cui una attività si svolge, il laboratorio, la bottega in cui il lavoro viene eseguito e da cui vengono fuori i prodotti finiti. Laboratorio, non soltanto luogo di esecuzione di ciò che è stato predeterminato, bensì luogo in cui si progetta, si dà corpo ad idee, si dà spazio e azione alla creatività. Vero “negozio del lavoro”!
Cosa rimane di tutto questo nella società contemporanea? Esiste ancora quella società che discende direttamente dall’industrializzazione, cui il mondo anglosassone (Gran Bretagna dapprima, Stati Uniti successivamente) ha offerto un notevole contributo?
Quanto somigliano i cambiamenti in atto – e non solo a seguito della recente crisi economica – nel modo di concepire il lavoro, nelle condizioni della manodopera, nella sicurezza, nei contratti, all’idea di laboratorio come espressione delle più alte capacità dell’uomo?
Il sistema economico che oggi domina la nostra società sembra beffarsi dei diritti dei lavoratori. Precari, a termine, sottopagati, al nero, cassaintegrati, licenziati. Secondo la definizione fornita dal giornalista Federico Rampini l’economia è diventata ormai la distruzione creatrice dal cui turbine implacabile dobbiamo salvare l’unica risorsa: la centralità dell’ individuo.☺
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