danzare solo nella notte   di Luciana Zingaro
29 Settembre 2012 Share

danzare solo nella notte di Luciana Zingaro

 

Il ricordo è chiaro, non importa il tempo trascorso: l’altezza da statua di imperatore romano, l’incedere maestoso, non paludato, il capo appena chino, le mani enormi e il tocco stranamente lieve, il tono della voce echeggiante, composto senza alterigia, il sorriso abbozzato di chi davvero comprende, lo sguardo profondo degli uomini grandi.

Quarto Oggiaro, periferia nord di Milano, periferia di emigrati e di gente umile, parrocchia di Santa Lucia: l’arcivescovo Carlo Maria Martini impartisce la cresima a una trentina di ragazzini stirati nell’abito nuovo, tanto diverso dalle tenute consuete da oratorio, imperlate di sudore, polvere e pallonate.

Ero tra i festeggiati quel giorno ed è questa una memoria che mi inorgoglisce di gioia. Sembrerà infantile, ma è un po’ come quando in tv, alla radio, sui giornali si parla di un evento che hai vissuto di persona, fosse anche solo da comparsa, e allora ti senti importante e pensi entusiasta “Che bello: io c’ero!”. La Storia ti attraversa anche così e ti senti parte di un tutto pulsante.

Ero troppo piccola allora per capire chi fosse Carlo Maria Martini, qualcosa in più l’ho capita dopo, o molto di recente. Però mi sono rimaste ben impresse in mente sin da subito le parole afferrate dai discorsi dei don in parrocchia, che questo era un vescovo fuori misura, una statura spirituale rara; per una strana associazione di idee, di quei ghirigori che ognuno di noi produce diversi dagli altri, quando al ginnasio si leggeva insieme I promessi sposi, Federigo Borromeo aveva per me l’immagine e il volto di Carlo Maria Martini.

Mi ha colpito la morte di Carlo Maria Martini, per la perdita della persona, della ricchezza e dello spessore umano che la contraddistingueva, non per il modo in cui tale morte è avvenuta, già fatta oggetto di diatribe inutili e strumentalizzazioni facili. Un esito naturale, invece, in linea con l’intera vita pastorale di Martini, da sempre attento al rispetto della dignità umana quale fondamento di una vera evangelizzazione: in occasione della morte di Piergiorgio Welby, Martini aveva invocato un “supplemento di saggezza” nell’uso dei  trattamenti terapeutici che non giovino più alla persona; interessato e aperto alle questioni del rapporto tra scienza e fede, vicino ai sofferenti e da ultimo sofferente a propria volta, citando i due detti di Qoelet “Osserva quel che Dio fa: chi può rendere diritto ciò che ha fatto curvo?” e “La polvere tornerà alla terra, come lo era prima, e l’alito vitale a Dio che l’ha dato” metteva in relazione quanto scritto nel Qoelet alla condizione che viviamo alla fine della vita e “al diritto di rinunciare a terapie che liberamente scegliamo di valutare sproporzionate, come la nutrizione artificiale”.

È la vita di Martini a stupirmi assai più che la morte, il suo magistero pastorale esplicatosi in luoghi fra loro lontani e in campi diversi, dallo studio e dall’esegesi della Parola al dibattito ininterrotto con gli scienziati in materia di bioetica, dalla prossimità ai malati all’istanza di rinnovamento rivolta alla Chiesa tutta, specie quella del ricco Nord del mondo, specie ai suoi vertici e alle sue gerarchie. In proposito, sono una sferzata le parole pronunciate da Martini in occasione dell’intervista rilasciata alla BBC pochi giorni prima della morte; vi diceva tra l’altro: “La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi… Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione”.

La risonanza universale di Martini sta in quest’attitudine a interrogare e interrogarsi senza posa nello sforzo continuo di promuovere meditazione e cambiamenti migliorativi tra i cattolici, e riposa sulla fiducia in una feconda interazione tra credenti e non credenti, salda al punto che Martini affermò che la differenza maggiore non è tra chi crede e chi non crede ma tra chi pensa e chi non pensa. Ed è questa una differenza che taglia trasversalmente credenti e non credenti.

La cifra sintetica del magistero di Martini è racchiusa in nuce nella sua prima lettera pastorale alla diocesi di Milano, provocatoria sin dal titolo: “La dimensione contemplativa della vita”. Una scossa inattesa, se solo si pensa alla destinataria della lettera, la città di Milano appunto, allora attivissimo avamposto della società industriale: Martini, consapevole e volutamente dirompente, vi sottolineava quanto l’uomo contemporaneo e la sua coscienza frammentata richiedano un baricentro unitario nella disciplina dello spirito, ed evidenziava come lo spazio dedicato alla contemplazione non diminuisca l’impegno pragmatico, ma se mai lo renda più cosciente e attento, tale il costruttore della parabola di Luca, che prima di iniziare la torre siede e fa i suoi conti, e con ciò non perde tempo, al contrario ne guadagna. Nella stessa lettera pastorale l’educazione al silenzio e alla preghiera figura quale mezzo per ricondurre l’uomo al suo “maestro interiore”, al suo alito divino, solo restando in ascolto del quale, anziché essere distolto dall’agire pratico, l’uomo trova la “condizione necessaria per affrontare con qualche probabilità di successo l’impegno politico senza soccombere e lasciarsi morire di aridità”; è in questo modo – continua Martini – che “il problema morale del cristiano in politica non viene vissuto in una ansiosa misurazione del lecito e dell’illecito, che di solito intristisce l’uomo, facendolo vagare nel minimo lecito e togliendogli ogni slancio. La moralità può invece essere vissuta come continuo superamento di sé in virtù di un fine assoluto e a partire da una spinta dello Spirito”.

Dopo i funerali di Martini ho ripreso una raccolta di poesie di Davide Maria Turoldo – li ho sempre collegati come in un dittico lui e Martini per densità interiore e potere di pensiero – e mi sono imbattuta in questa bella strofa:

Tu non sai questa voglia
di danzare
solo nella notte
dentro la chiesa,
tua nave sul mare.
E la quiete dell’anima
e la discesa nelle profondità,
e sentirti morire
di gioia
nella notte.

Sembra scritta per Carlo Maria Martini, o forse gli sarebbe piaciuta.

A presto. ☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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