Dedicato alle mamme
15 Giugno 2017
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Dedicato alle mamme

Intendo dedicare le righe che seguono alla figura della mamma, mentre tocca, ahimè, constatare che molte delle mamme di miei coetanei, oggi ultrasessantenni, ci hanno già lasciato. In questa testimonianza uso volutamente il termine “mamma”, anziché la parola “madre”, perché mamma è parola onomatopeica che sembra mantenere in sé, per tutta l’esistenza, la tenerezza, la confidenza dei primi giorni di vita in cui, da bimbi, già poche settimane dopo la nascita, imparammo a produrre, con le labbra, i primi suoni, che poi diventarono sillabe, infine parole. Giacché, da bimbi, i primi suoni li produciamo proprio con le labbra, da cui appunto le consonanti dette “labiali”, come m, p, b. Così accade, ad esempio, che la sillaba “ma”, raddoppiata, diventa “ma(m)ma”. Producendo anche il termine latino “mater”, da cui ha origine “madre”. Allo stesso modo, la sillaba “pa”, raddoppiata diventa “pa- pa” (papà); analogamente, la sillaba “ba”, raddoppiata, diventa “ba(b)ba” (reso al maschile mutando la vocale finale in “o”).

Che bello lo studio della semantica, che ci consente di osservare le correlazioni tra fonemi del linguaggio umano! Tanto per rimanere in tema, state ad osservare dove vi conduco. Sempre la sillaba “ba” compone, raddoppiata, la parola indiana “Baba”, che sta per “saggio, vecchio padre” richiamando appunto l’autorevolezza di un padre: ricordiamo, ad esempio, Sai Baba, celebre guida spirituale indiana venuta a mancare nel 2011.

E, sempre derivato dalla sillaba “ba”, ecco il termine, ottenuto anteponendo la vocale “a” alla consonante “b”, “Abba” o “Abbà” (appellativo usato in ambito giudaico per rivolgersi in maniera informale al Padre): “E perché suoi figli, Dio ha mandato nei nostri cuori lo spirito del Figlio, che grida Abbà, Padre” (S. Paolo, lettera ai Galati, 4,6).

Mi son soffermato in questa breve dissertazione semantica per sottolineare il fatto che ho sempre pensato alle brave mamme della mia generazione definendole, nella mia mente, “mamma”, più che “madre”, termine che viene usato in genere nel linguaggio civilistico e del diritto. Giacché, per la tenerezza con cui, nel corso dell’età adulta, ho conosciuto alcune di loro, le ho generalmente percepite come si percepisce una brava mamma, persona cioè capace di donare tanto. Donare, donare, donare, al di là dell’umana stanchezza. Davvero, quante sfumature della tenerezza il termine “mamma” custodisce in sé!

Quando, durante le mie inquiete ricerche esistenziali, rientravo, di tanto in tanto, a casa dei miei per qualche giorno, mamma era sempre presente, sempre pronta ad accogliere il figlio stanco e/o scoraggiato. Sempre con una parola positiva, sufficiente a diradare nuvole e nebbie, a lasciar intravedere sprazzi di luce. Vedrai, tutto s’aggiusta

Con quell’atteggiamento di fiducioso abbandono a Volontà superiori che soltanto più tardi, dopo aver varcato ormai il “mezzo del cammin di nostra vita”, ho imparato anch’io a riconoscere. Quante volte, con instancabile amorevolezza, le nostre mamme hanno, ogni volta, riaperto la porta di casa ai figli che, negli anni dell’irrequietezza, cercavano se stessi. Sempre premurose, sempre accoglienti! Chissà quante volte hanno accolto i figli errabondi sulle strade del mondo, ogni volta al rientro a casa, alla maniera delle brave mamme: Me li hai portati i panni sporchi? Vuoi mangiare qualcosa? Che cosa ti preparo?

In verità, nel nostro errare di qua e di là, spesso cercavamo, più che un piatto di minestra, risposte e soluzioni a domande complesse che costoro, donne semplici, non erano in grado di offrirci. Che soltanto la Vita, nella sua saggezza ed intelligenza di fondo, ci ha poi fornito, strada facendo, di volta in volta.

Povere donne semplici! Si sono spese, al fine di tentare di alleviare l’asperità dei nostri percorsi, con la generosità che hanno potuto e saputo immettere nel quotidiano vivere, in base a quel po’ (o quel tanto) che condizioni e limiti oggettivi familiari, sociali, culturali, consentivano loro. Pur consapevoli – soffrendone perciò in silenzio – dell’impossibilità di fare più di quanto riuscisse loro di esprimere.

All’epoca, noi ragazzi di allora non possedevamo telefonini, non eravamo “connessi”, come oggi, con eventuali (pseudo) amici sparsi in giro sui “social” (Facebook, ecc). Ma – di ciò sono convinto – eravamo assai più connessi con noi stessi e con i nostri consimili. Non ci servivano telefonini per comunicare. Ci si incontrava e si parlava, guardandoci in faccia. Oggi, invece, quando viaggi in treno ed in autobus, vedi quasi tutti con computer, smartphone ed altre novità tecnologiche in mano, e quasi più nessuno che sappia dire, al proprio vicino di posto: Buongiorno, come va? Guarda che giornata!

Noi, ragazzi di allora, cercavamo, insieme, risposte esistenziali non sempre facili. Insieme, discutevamo. Insieme, giocavamo. Ho scritto e ripeto: “insieme”. E, a merenda, la mamma di turno, quella presso la cui abitazione ci trovavamo in quel momento, preparava per tutti qualcosa: due biscotti, una fetta di pane e olio, un frutto. La mamma di turno dava, a chi in quel momento si trovava sotto il suo tetto e con pari amorevolezza a ciascuno, ciò che aveva da offrire. Era veramente, in quel momento, la mamma di tutti i presenti.

Sul far della sera, odo promanare da una vicina chiesetta i suoni del Vespro. È “l’ora che volge al desio e ai naviganti intenerisce il core”. (Dante Alighieri, Purgatorio, Canto VIII). Con tali sensazioni, in un pomeriggio di maggio, intendo fermare questi pensieri.☺

 

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