Disarmare la pace
12 Marzo 2022
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Disarmare la pace

“Non più indipendenza, ma ‘inter- dipendenza’: questa è la parola non nuova in cui, se non si vuol che il domani ripeta e aggravi i dolori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato: libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale da rispettare e da difendere prima negli altri che in noi; come reciprocità e come collaborazione a una più vasta umanità” (Calamandrei, Diario 1939-1945).

Dovrebbe essere una festa che un popolo raggiunga l’indipendenza. Ma – per ricordare un esempio storico già accaduto nei Balcani – quella del Kosovo cambiò la festa in pianto dopo una guerra fatta apposta dalla NATO (proprio così: la NATO pretese di operare allora come un vero e proprio soggetto sovrano, e non più come una alleanza di Stati sovrani). La guerra della NATO fu fatta con un duplice obiettivo, uno palese ed uno occulto: quello palese era di liquidare il regime di Milosevic (e Milosevic stesso) per annettere la Serbia all’Occidente; quello occulto era di procurare al Kosovo l’indipendenza, perseguita dai guerriglieri dell’UCK, che allora però venivano chiamati patrioti e non terroristi. L’indipendenza del Kosovo doveva essere il premio agli irredentisti albanesi per aver fornito il pretesto della guerra contro la Iugoslavia. Che cosa aveva voluto aggiungere il Kosovo, attribuendosi anche quel dieci per cento che gli mancava? Aveva voluto aggiungere la sovranità, che è l’idea di un potere assoluto e non subordinato ad alcun altro potere, su cui si sono costruiti gli Stati moderni. È proprio quell’idea che oggi va abbandonata, e che del resto è erosa dall’interdipendenza sempre più accentuata dalla globalizzazione. La sovranità mira ad aggiungere allo status precedente una sola cosa ed essa è indissolubilmente legata: aggiunge il diritto, proprio del sovrano e di nessun altro, di muovere guerra, lo ius indicendi bellum; il diritto di guerra è ciò che ultimamente distingue l’indipendenza dall’autonomia. Per spiegarci con un esempio: il Sud Tirolo è autonomo, ma solo l’Italia può dichiarare la guerra. Proclamando la propria indipendenza il Kosovo si riserva il diritto di guerra: la sola guerra che poteva fare era quella contro la Serbia; risultando troppo debole per farla, contò sul concorso delle potenze, Stati Uniti in testa, che col riconoscimento gli potevano garantire l’indipendenza, e con l’alleanza le forze necessarie per difenderla.

Il fatto è che nessun popolo è solo al mondo, e i gesti degli uni si ripercuotono sugli altri, fino a poterli coinvolgere in una catastrofe. Questo spiega per esempio perché i palestinesi, che la catastrofe l’hanno subìta, non abbiano mai proclamato unilateralmente lo Stato: sono più responsabili, e sanno che la comunità internazionale, che usa due pesi e due misure, non permetterebbe a loro ciò che ha consentito ieri agli israeliani. Il principio di autodeterminazione dei popoli non vuol dire in effetti che ognuno può fare quello che vuole, né il costituirsi in Stato sovrano è il punto d’arrivo obbligato di una lotta di liberazione; il diritto all’ autodeterminazione non coincide con il diritto di secessione.

In Europa poi ci sono particolari ragioni per non cambiare i confini. Su di essi si sono combattute tutte le guerre europee e mondiali, e quando di nuovo stava per scatenarsi un conflitto tra i due blocchi dell’Est e dell’Ovest, la pace fu assicurata quando nella Conferenza di Helsinki per la cooperazione e la sicurezza in Europa si stabilì che in nessun modo dovevano essere rimessi in causa e modificati i confini esistenti. Forse non tutti i confini erano giusti; ma era giusto che non si mandasse il mondo al rogo per loro. In uno Stato mondiale di diritto, in cui si realizzasse l’universalità dei diritti fondamentali, legati non alla cittadinanza ma al fatto stesso di essere uomini, non ci sarebbe bisogno di difendere le identità nazionali dentro le fortezze, i confini perderebbero di significato e quello che conterebbe sarebbe di attraversarli, e non di rinchiudervisi.

“Appena un istante, tutto venne divorato da un buco nero di distruzione e di morte”. Così papa Francesco ad Hiroshima. Ma lui è l’unico che resta ancorato a quel buco nero e che mette in gioco la sua autorità di leader per parlare da quel buco nero a un mondo che sembra volere sprofondarvi di nuovo, come ci mostrano i giochi di guerra tra Russia e NATO per la questione dell’Ucraina. Ed ha aggiunto una nuova definizione alla pace, dicendo che “la vera pace è disarmata”: o è disarmata o non è, ossia non può esserci. “Le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. La vera pace può essere solo una pace disarmata”. Essa non sta solo in un non fare la guerra ma in un costruire continuo nella giustizia il bene di tutti.

Va ripresa con coraggio la strada gloriosa dell’internazionalismo, la costruzione del multilateralismo. Questo, oggi, è il vero “stato d’eccezione” su cui ieri si insediavano i vecchi sovrani. Ma per fare questo occorre tornare alla politica per promuovere una politica per la Terra; occorre fondare un diritto capace di dettare regole impegnative per tutti, un costituzionalismo mondiale e un sistema di garanzie che lo renda efficace, occorre una Costituzione per la Terra.

Siamo arrivati a quella svolta epocale per la quale la salvezza dell’umanità e del mondo non è più solo l’argomento delle religioni e delle Chiese, ma è l’urgenza stessa della politica e del diritto. Le due salvezze si incontrano, diventano una sola, fede e storia, grazia e libertà, sono portate dai fatti a incontrarsi in una sintesi nuova, escono dalla dialettica degli opposti. ☺

 

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