dov’è tuo fratello
14 Aprile 2010 Share

dov’è tuo fratello

 

“Ciò che è dannoso non è la diversità dei nostri dogmi, ma il nostro dogmatismo. Per questo, se ognuno di noi facesse quello che ritiene sia volontà di Dio, il risultato sarebbe il caos più assoluto. È colpa della certezza. La persona spirituale conosce l’incertezza, che è uno stato d’animo sconosciuto al fanatico religioso”. Con queste parole Antony de Mello sintetizza uno dei rischi che la Chiesa corre, specialmente oggi. Se applichiamo questa modalità dogmatica, all’interno di spazi educativi o rieducativi ed in attività di evangelizzazione, si rischia di perdere una grande occasione, sia per i “lontani”, che per la Chiesa. L’impegno, degli educatori, dei catechisti o anche degli evangelizzatori, è lodevole e necessario, ma a rischio di implosione se non tiene conto, per quel po’ che posso capire, di due aspetti fondamentali.

Il primo è di carattere generale e pastorale: il vangelo vive e si dinamizza solo se accetta il confronto con il contesto in cui opera e con i soggetti che incontra. Oserei dire che resta immutabile solo se si rinnova ad ogni annuncio; se diventa novità di vita in quanto trasmesso da persone “nuove”; se la nuova vita della persona che accoglie “la parola”, a sua volta, rinnova quella dell’evan- gelizzatore. Penso che non sia l’evangelizza- tore che converte, ma la sua conversione di vita testimoniata e alimentata dalla formazione, dalla confidenza con i testi sacri, dalla preghiera, dalla speranza, dalle opere.

Il secondo aspetto riguarda il contesto relazionale. Se l’evangelizzatore si percepisce migliore o superiore o diverso dal destinatario dell’annuncio, potrebbe dare un’im- pressione negativa. Se però il fuoco dell’amore di Dio, pur divorandolo, gli consente di vivere in umiltà, il messaggio evangelico si trasmette, anche se non sempre viene accolto e si ha bisogno sempre di un consolidamento costante. Se le attività educative ed anche di evangelizzazione sono prive di confronto e non sono congruamente relazionali, potrebbero provocare “l’indottrinamen-to” sterile.

 Quando ci accostiamo ai giovani, agli adulti, agli ultimi, ai poveri o, in generale, alle persone che hanno sbagliato – penso – dobbiamo prima di tutto dar loro il tempo di spogliarsi di quella corazza di difesa o maschera, e per far questo occorre intrattenere una relazione vera, scomoda e costante: occorre che si fidino e ci vedano per quello che siamo, ossia persone fragili ed insicure, con le nostre paure, ma anche con il nostro coraggio e la nostra speranza. Nel corso di questo cammino dovrebbero percepire, innanzitutto, che ci sentiamo loro fratelli, non diversi, ma uguali a loro. Ma come possiamo sentirci uguali a coloro che non sono “praticanti”, o sono diversi, o poveri, anche di senso, o “lontani” o che hanno commesso atti non approvabili od anche reati? Potremmo forse partire da un rispetto profondo per quella umanità, a volte alterata o addirittura sfregiata, eppure presente in tutti ed anche in loro. Il rispetto per la vita di tutti e di ciascuno, anche la loro, dovrebbe farci sentire responsabili della loro condizione di colpa. La domanda che Dio rivolge a Caino è la stessa che rivolge continuamente a noi: “dov’è tuo fratello?”. E noi abbiamo il bisogno di rispondere a quella domanda, andando a cercare i luoghi dove questa fraternità è a rischio e dove chi ha sbagliato è a rischio di vita.

Daniele, questo il nome di un giovane detenuto, suicidatosi recentemente, dentro il carcere di Larino, e morto a Vasto dopo alcuni giorni di agonia, aveva perso tutto, anche la speranza di poter cambiare ed avere un futuro possibile. A quanti Dio avrà chiesto: “dov’è Daniele, dov’è tuo fratello?”. Forse solo chi è passato attraverso l’angoscia di non saper rispondere a questa domanda può provare ciò che Caino aveva nell’animo. Certo gli educatori o catechisti o evangelizzatori non sono ultimi, vulnerabili, non hanno commesso reati, eppure ogni volta che ci sentiamo diversi o ignoriamo i fratelli che soffrono o che ci chiedono aiuto, contribuiamo a creare sofferenza. Provocare sofferenza, lasciare nella solitudine, spegnere la speranza ed esserne consapevoli, non è forse contribuire ad uccidere? Se, grazie alla nostra capacità di accompagnare  e non per forza di evangelizzare, nel cuore della persona vulnerabile o che ha sbagliato, avverrà una conversione alla vita, lì vi sarà l’umiltà per rivolgersi con onestà e serietà a Dio ed intrattenere una relazione con il Padre. Questo processo consequenziale potrebbe essere così inquadrato: se non sappiamo relazionarci tra di noi come possiamo pensare di relazionarci con Dio? Ma Egli non finisce mai di stupirci tanto che quando viene ucciso Abele, si rivolge direttamente a Caino proprio perché questi ha deciso prima di tutto di non avere relazioni né con il fratello, annientandolo, né con se stesso. E Dio non lo abbandona, ma lo incalza, e lavora ai fianchi per restituirgli quella dignità che gli consentirà di riconoscersi ancora persona e quindi ancora fratello, per poi permettergli di riconoscere la sua colpa e non morirne schiacciato. Forse il primo vero annuncio che il lontano, il giovane, l’adulto che ha sbagliato vorrebbe sentirsi dire è: “Dio, qualunque sia la tua condizione, anche nella colpa, non si dimentica di te”.☺

adelellis@virgilio.it

 

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