essere competitivi
21 Marzo 2010 Share

essere competitivi

 

A volte ci si domanda perché economisti ed uomini di governo abbiano voluto aprire le frontiere economiche a livello mondiale: dapprima con la CEE poi con l'Unione Europea a 15 paesi, oggi a 27, o anche con la World Trade Organization. Il processo di globalizzazione è stato alimentato dallo sviluppo tecnologico tanto che l'apertura delle frontiere è diventata una conseguenza naturale, un sorta di fenomeno di ordine superiore, una scelta macroeconomica quasi obbligata che ha azzerato le distanze tra economie più diverse.

In modo semplice ed intuitivo, il fenomeno globale può essere ricondotto alla teoria fisica dei vasi comunicanti, dove le economie sviluppate sono come recipienti pieni d'acqua e posizionati in alto mentre le economie emergenti sono come recipienti con poca acqua e posti più in basso. L'acqua è la ricchezza e i vasi comunicanti sono il mercato. Le economie sviluppate trovano conveniente acquistare prodotti a prezzi più bassi dalle economie emergenti, attivando così un evidente deflusso di ricchezza verso questi ultimi paesi (ad esempio Europa ed Usa verso India e Cina).

A questo punto, dall'alto del nostro recipiente economico, sembrano ovvie e valide tutte le obiezioni rivolte alla globalizzazione, tanto da far sembrare desiderabili vecchie forme di protezionismo nonostante le pur note incidenze negative sul benessere sociale.

Ma facciamo delle osservazioni. Da cosa dipende se il "recipiente economico" è a un livello più alto o più basso? Rispondere a questa domanda è fondamentale per capire se il flusso di ricchezza va in una direzione o nell'altra. Questo dislivello lo possiamo chiare "vantaggio competitivo" come il vantaggio che i paesi emergenti hanno in termini di basso costo del lavoro che consente loro di attirare flussi di ricchezza in ambito manifatturiero ed invogliare processi di delocalizzazione industriale.

A tal proposito può essere necessario aprire una parentesi per anticipare i più critici. Il basso costo del lavoro, probabilmente, deriva anche dalle cattive condizioni dei lavoratori sfruttati e poco tutelati. Ma dal punto di vista di quei lavoratori, le loro condizioni rappresentano comunque un miglioramento marginale rispetto alle loro condizioni precedenti, dove magari morivano di fame. Nelle economie emergenti di oggi, come pure in Italia nei primi del '900, il mercato del lavoro sta attraversando una fase intermedia di bassa tutela ed alto sviluppo che presto, vista pure la velocità dei fenomeni globali, vedranno una significativa uniformazione professionale. Chiusa parentesi.

Altri importanti vantaggi competitivi sono le risorse energetiche, il petrolio, i minerali, l'abbondanza di acqua, il legname, la ricerca e la tecnologia. E grazie a questi fattori le economie riescono a "collocarsi più in basso", a produrre in modo più efficiente a costi inferiori. Ogni paese con un vantaggio competitivo rilevante deve utilizzarlo (nel rispetto dell'ambiente e della società) per conseguire un beneficio diretto per la propria economia ed un beneficio indiretto per le altre economie, che possono acquistare stessi prodotti a prezzi minori. E viceversa.

Ma proprio nel viceversa troviamo il nocciolo del problema. Se i paesi stranieri riescono a cogliere l'opportunità di entrare commercialmente in Italia, perché l'Italia non riesce a fare altrettanto? Forse perché troppo spesso gli imprenditori italiani, viziati da politiche protezionistiche e adagiati in mercati ristretti, si sono limitati a "ripetere quello che hanno sempre fatto in passato" sottovalutando l'entità del cambiamento globale. Fare impresa non è "ripetere" ma interagire con l'ambiente esterno e con il mercato, il che significa migliorare, innovare, chiudere in settori perdenti e riaprire in settori competitivi ossia riconvertire a livello produttivo e commerciale.

Tutto questo perché i mercati internazionali integrati aprono ad un chiaro confronto tra le economie del mondo ed alla fine premiano il merito di quelle più efficienti. Ma, di fronte a questa sfida ambiziosa, molto spesso scegliamo la strada più facile, ci limitiamo ad accusare il mercato globale (un colpevole impersonale!) e ci chiudiamo in una visione perdente a priori, invece di individuare i nostri punti di forza e valorizzarli. Quindi diventa importante valorizzare, ad esempio, le peculiarità paesaggistiche, artistiche e gastronomiche di ciascun territorio locale italiano, comunicarle all'esterno e trasformarle in un efficace vantaggio competitivo globale.

Nell'impresa privata insistere in settori ormai saturi significa disperdere risorse in modo non produttivo, un comportamento che la globalizzazione inesorabilmente castiga. Alla luce del forte ritardo che abbiamo maturato e dell'impreparazione che stiamo scontando, è doveroso riflettere e rivisitare le proprie abitudini di consumo e di investimento per rispondere alla globalizzazione in modo deciso, coraggioso e vincente. ☺

www.iannielloconsult.com

 

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