Essere padri in carcere
12 Luglio 2021
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Essere padri in carcere

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di un mondo parallelo di cui troppo spesso si conosce così poco, con questa testimonianza.

Ognuno di noi, nella sua vita, prima o poi, dovrà fare i conti con un’Assenza, libero o ristretto che sia. Quando un disagio, una mancanza o una particolare situazione di vita si legano tra loro è facile cercare un mezzo per evadere. Ci sono molte forme di assenza che ognuno porta dentro di sé senza mai esternarle. Il contesto non aiuta sicuramente perché regna tanta diffidenza e per paura di essere visti come deboli si indossa una maschera. Durante il percorso detentivo, nella bacheca della sezione, è apparso l’avviso di un Corso sulla Genitorialità condotto da una psicologa. Inizialmente ero interessato, ma poi, strada facendo, ho cambiato idea per il mio carattere molto introverso. Stavo rinunciando a quella opportunità, però quella parola, Genitorialità, risuonava in me e allo stesso tempo destava tanta curiosità. Non avevo nulla da perdere, in realtà, così decisi di iscrivermi e partecipare a questa nuova esperienza. Il percorso era: Supporto alla genitorialità con taglio psicologico. Ci riunivamo in cerchio senza alcuna barriera mentale e fisica. Diversi per cultura, età, etnia, fede, ma tutti uomini che fingevamo di essere bravi padri. All’inizio ci guardavamo con sospetto e diffidenza. Eravamo in dieci, la psicologa conduceva. La fatica più grande e vera era proprio quella di mettere a nudo noi stessi, esternare ciò che si provava nel profondo dell’anima. I primi due incontri sono serviti a guardarci l’un l’altro, scrutandoci e cercando di capire chi avevamo di fronte. In effetti ci conoscevamo tutti, ma in quell’ occasione avremmo dovuto gettare via le nostre maschere. Pian piano cominciavano a cadere quelle barriere, quei muri invisibili che ognuno di noi aveva creato per non permettere a nessuno di entrare. Abbiamo fatto molti esercizi: la valigia per un viaggio, il tempo sospeso, le maschere, il gioco dei ruoli. Spesso​ parlare dei propri affetti in carcere è estremamente difficile, significa esporsi, rendersi fragili agli occhi degli altri, significa condividere l’unica cosa che forse è rimasta una proprietà personale:​ “gli affetti”.​ Ognuno di noi sembrava stesse combattendo la sua guerra personale, indossando un’armatura e coprendosi con uno scudo. In questo modo tutte le nostre fragilità non sarebbero state visibili e nessuno poteva giudicarci. Per la prima volta mi sono sentito libero di mostrarmi agli altri, senza paura, senza timore: esprimere le mie emozioni e lasciare che venissero fuori anche le lacrime. Per la prima volta mi sono sentito parte di un gruppo, mi sono messo in viaggio, un “viaggio dentro di me” che mi ha aiutato ad abitare il dolore con rispetto ed empatia anche per quello degli altri. Confrontandomi con le altre persone ho imparato a rivalutare me stesso. Mi sono reso conto che quando le preoccupazioni, il senso di colpa e di inadeguatezza sembrano rendere insormontabile il muro che ci divide dall’esterno, lo spazio di questo gruppo mi ha donato la possibilità di creare un ponte. Gli spazi del carcere spesso risultano impermeabili agli affetti e all’emotività, che sembra quasi venga cancellata. La detenzione, però, ha l’obiettivo di rieducare. La partecipazione al Gruppo della Genitorialità mi ha aiutato ad esplorare quel mondo legato ai sentimenti e agli affetti, che non può svilupparsi senza esplorare anche queste parti del sé, legate ai sentimenti e agli affetti. La distanza dal mondo esterno e la chiusura nel sub-universo carcerario con le sue regole, i suoi orari definiti, i tempi vuoti, spesso ci porta a perdere la nostra identità, soprattutto quella affettiva. Abbiamo capito che essere padri non significa comprare doni materiali ai nostri figli, che sono solo un mezzo per colmare il vuoto o i sensi di colpa. Abbiamo gioito per ogni riavvicinamento familiare che accadeva. In carcere la gioia che si mostra per gli altri spesso non è sincera, ma in quel gruppo qualcosa era cambiato. Abbiamo imparato che si giudica quando non si conosce e,​ comprendere l’altro, ha azzerato il giudizio. Sono riuscito a capire aspetti importanti di me stesso e della mia vita. Ho imparato a riconoscere nell’altro esperienze simili a quelle vissute da me. Troppo spesso mi sono ritrovato solo e a pensare alla mia vita, non riuscendo a valutarla oggettivamente. La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti.

 

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