Europa perchè si
29 Marzo 2014 Share

Europa perchè si

Oggi l’Europa è indispensabile per dare delle risposte a problemi nuovi, per garantire il godimento di beni ai cittadini europei, godimenti di beni e valori che non possono essere garantiti dagli Stati nazionali e dal libero mercato. Il commercio è una prerogativa dell’Unione Europea che negozia trattati commerciali con altri Paesi. Adesso che si è riaperto il negoziato dell’ organizzazione mondiale del commercio è tempo di rilanciare l’idea di un appoggio multilaterale anche perché ci troviamo in una situazione in cui il ciclo produttivo del mondo va al di là delle frontiere nazionali. In particolare, è l’Europa che è danneggiata in un mondo che si parcellizza attraverso accordi bilaterali.

È pericolosissimo il negoziato che l’UE sta concludendo con gli Usa (Transatlantic Trade and Investment Partnership – Ttip). L’ Europa dovrebbe frenare questo tipo di trattato che prevede sanzioni a carico di quegli Stati che ostacolano il profitto su interi ecosistemi da parte di multinazionali. Un esempio è la legge regionale del Lazio, appena varata, sul servizio idrico integrato che ostacolano i poteri forti: si potrebbero sollevare motivi di rivalsa da parte di organizzazioni economiche.

L’antieuropeismo è il frutto di un sentimento dell’opinione pubblica che ritiene l’UE non  in grado di dare delle risposte ai problemi e quindi finché essa non sarà in grado di farlo è evidente che avremo delle fette di popolazioni che reagiranno in maniera negativa nei confronti dell’Unione stessa. La risposta all’antieuropeismo è legata a una battaglia per più Europa non per meno Europa. Perché solo più Europa è in grado di dare delle risposte ai problemi dei cittadini.

Era l’aprile 1989. Il muro di Berlino era ancora intatto e la Comunità Europea pensava al futuro. La Commissione Delors – di cui facevano parte Ciampi e Padoa Schioppa – lo disegnava così: “L’unione economica e monetaria in Europa implicherà una completa libertà di movimento per le persone, i beni, i servizi, i capitali, oltre che tassi di cambi irrevocabilmente fissi tra le monete nazionali e, infine, la moneta unica” (Delors, 1989, p.13). La prima azione concreta riguardava la liberalizzazione dei movimenti di capitale, introdotta nel 1990. Ma – spiegava il rapporto – liberalizzare la finanza metteva a rischio i cambi delle monete nazionali e obbligava all’introduzione dell’euro che avrebbe eliminato “il tasso di cambio come strumento di aggiustamento (…). Gli squilibri economici tra i Paesi membri dovranno essere corretti attraverso politiche che cambiano la struttura delle economie e i costi di produzione se si vogliono evitare gravi disparità regionali nella produzione e nell’occupazione” (p.12). Inevitabile concludere che “la flessibilità salariale e la mobilità del lavoro sono necessarie per eliminare le differenze di competitività tra diverse regioni e paesi della Comunità. In caso contrario ci potranno essere forti riduzioni nella produzione e occupazione nelle aree con minor produttività” (p.19).

In nome del mercato, a distanza di 25 anni, questo documento ritrae con grande efficacia la traiettoria di un’integrazione europea all’insegna del liberismo, fondata sull’espansione della finanza e sulla capacità dei mercati – il “mercato unico” per beni e servizi e la liberalizzazione dei mercati dei capitali – di assicurare lo sviluppo. La fiducia riposta nella finanza impediva alla Commissione Delors di immaginare che proprio essa avrebbe provocato la grande crisi del 2008 e la “grande depressione” attuale. Quel disegno si è compiutamente realizzato, compresi i costi dell’aggiustamento scaricati su salari sempre più bassi e migrazioni dai Paesi della periferia.

L’Europa, a sei anni dallo scoppio della crisi del 2008, si ritrova profondamente divisa, con un “centro” intorno alla Germania che è tornato a crescere, ha mantenuto l’occupazione, si è messo al riparo dai fallimenti delle banche, ha assunto un forte controllo politico sull’insieme dell’Unione. Viceversa, i Paesi della periferia – Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia – si ritrovano più poveri e disuguali, senza lavoro, con un maggior peso del debito e difficoltà che si trasmettono dalle imprese, alle banche, alle famiglie. In Italia il reddito per abitante è tornato ai livelli di 15 anni fa, la produzione industriale è del 25% in meno rispetto ai livelli pre-crisi del 2008, una persona su sei cerca lavoro e non lo trova, e tra chi lavora uno su quattro ha un contratto precario. Ma i conti in rosso si stanno estendendo ad altri Paesi un tempo forti: la Francia è in bilico, Olanda e Finlandia sono in recessione, la ripresa inglese (fuori dall’euro) è trainata soltanto da una nuova bolla speculativa destinata a scoppiare.

Le elezioni europee del maggio 2014 rifletteranno questo profondo disagio sociale, con un’affermazione delle forze populiste e reazionarie in tutta Europa. L’insostenibilità dell’Europa della finanza e dei mercati diverrà evidente ma con un segno di reazione nazionalista e anti-europea, spesso razzista. Tra i tecnocrati dell’austerità da un lato – sostenuti quasi ovunque in Europa da governi di “larghe intese” – e i populismi nazionalisti dall’altro è importante tenere aperto lo spazio di un’altra Europa, democratica e partecipata. La candidatura di Alexis Tsipras, il leader di Syriza in Grecia, a presidente della Commissione europea rappresenta bene questa difficile possibilità di cambiamento. ☺

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