Giochi tragici
9 Novembre 2022
laFonteTV (3191 articles)
Share

Giochi tragici

Game [pronuncia: gheim] è un vocabolo inglese ormai accolto nella nostra lingua ed il suo significato risulta accessibile a chiunque. Al di là della sua traduzione letterale in “gioco”, noi parlanti italiani sappiamo riconoscerne altre valenze semantiche quali ad esempio quelle relative all’ambito sportivo oppure del divertimento. Indifferentemente ci alterniamo tra termini come videogame o videogioco; se parliamo di tennis conosciamo l’esatto valore di un game, vale a dire una delle fasi della competizione. Per estensione con questo termine si indicano tutti quegli eventi che hanno a che fare con lo svago, il tempo libero, la spensieratezza – sempre che se ne possa godere, di questi tempi!

Eppure, con mia grande sorpresa – e confesso la mia ignoranza -, ho ritrovato la parola game in uno dei contesti più tristi e drammatici del nostro tempo.

Il nostro contemporaneo si sta rivelando un tempo tragico. Come altri collaboratori del nostro periodico, che ne hanno fatto cenno sulla nostra rivista, c’è poco da stare allegri di fronte agli eventi recenti. In un suo articolo dell’8 ottobre scorso, la professoressa Donatella Di Cesare così si esprimeva: “Vedo intorno a me gente che lavora, che insegna, che studia – apparentemente come nulla fosse. Ma a ben guardare non è difficile cogliere quell’angoscia sottile e incontenibile che permea ormai l’esistenza di tutti. La rimozione, per quanto efficace, non può nascondere l’enormità di quel che siamo costretti a vivere. La minaccia nucleare incombe quotidianamente su di noi… Che lo si voglia o no, quella guerra lontana, ai confini del Donbass, di cui pochi avevano sentito parlare, è arrivata fino a noi, senza che nessuno la arginasse, ha fatto irruzione nelle nostre case, promette di cambiare il nostro modo di vivere e, da ultimo, di annientare le nostre esistenze”.

Ed accanto alla guerra – la “follia” della guerra – emergono altri gravi problemi. Come ormai avviene nel nostro mondo occidentale, quelli più vicini a noi – crisi energetica, rincari dei prezzi di diversi generi di consumo, preoccupazione per la ripresa della diffusione dei contagi da coronavirus – fanno notizia e sono all’ordine del giorno nei circuiti mediatici (televisione, internet, stampa in genere) mentre altri, considerati all’apparenza lontani o irrilevanti, soffrono l’oscuramento e l’oblìo dalla comunicazione ‘ufficiale’.

Ma torniamo alla parola game. Come testimoniano Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja, a proposito dei migranti che stazionano ai confini dell’Europa orientale, “nel gergo della rotta balcanica, si chiama game il tentativo ripetuto di scavalcare le frontiere, dieci volte, venti o trenta volte: una specie di lotteria, o di roulette, la cui posta è la vita” (Vite in sospeso). “I disperati partiti […] dall’Afghanistan, dalla Siria o dall’Africa arrivano in un’Europa sconquassata dalla più assurda delle guerre assurde, il cui risultato, per adesso, oltre alle vittime, alle macerie e ai danni incalcolabili, è la creazione di una massa abnorme di rifugiati”.

Anche se i nostri media non ne parlano, o più probabilmente le nostre orecchie ed i nostri occhi non vogliono né ascoltare né vedere, la migrazione è e resta una realtà del nostro tempo: come afferma uno di questi migranti, “la migrazione è come l’ acqua. Blocchi un punto e comincerà a gocciolare da un’altra parte”. A Lampedusa, all’indomani della commemorazione della strage del 3 ottobre 2013, sono sbarcate un centinaio di persone, con diversi bambini, sulla rotta dalla Libia verso la Sicilia. Ma esistono altri percorsi, anch’essi molto pericolosi, come quelli montani attraverso la frontiera tra l’Italia e la Francia, o come la rotta atlantica, tra l’Africa e la Spagna, considerata una delle più insicure e causa di migliaia di vittime.

Non è un “gioco” lanciarsi contro una rete di filo spinato e cercare di passare dall’altra parte senza essere respinti dai gendarmi: eppure esseri umani tentano questo game ripetutamente, quasi annotando nella loro angoscia il numero di tentativi fatti. Un esempio, ahimè drammatico, lo racconta Francesca d’Aloja: “Si avvicina un altro ragazzo. È un ingegnere iracheno … è tornato ora dopo aver tentato, all’alba, il suo venticinquesimo game. Si è sentito male, non riusciva ad andare avanti per il freddo. ‘Domani ci riprovo’, dice, ‘è la mia sola possibilità’”.

Potremmo commentare a lungo situazioni come queste, ma possiamo davvero fermarci alle sole nostre “buone”, compassionevoli parole? “Le sofferenze che le frontiere e i loro sorveglianti infliggono a chi tenta di scavalcarle ci obbligano a ripensare fino in fondo il significato di questi limiti che non sono per loro natura né sacri né invalicabili. Creati dalla storia, dalla storia possono essere modificati” (Edoardo Albinati).

Non sarebbe auspicabile una risposta politica, seria ed attenta, una visione del ‘confine’ come valico, soglia, porta, che “divide ma al tempo stesso mette in contatto”? La creazione di corridoi umanitari che consentano alle persone di ‘migrare’ in sicurezza, conservando dignità e decoro, rappresenterebbe una opportunità.☺

 

laFonteTV

laFonteTV