Il coraggio del dialogo
14 Maggio 2022
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Il coraggio del dialogo

Scriveva Fulvio Scaglione in Limes – n°12 – 2017: “Il separatismo filorusso, ben foraggiato, combatte un conflitto a bassa intensità che nessuno può o vuole estinguere. Non il precario governo ucraino. Non l’America, contenta dell’ instabilità alle porte di Mosca. Non la Russia, che non ha fretta”. Si chiedeva allora: c’è ancora la guerra nel Donbas? Sì. No. Forse. Dipende. A scelta. Ma a scelta di chi? Sono passati più di tre anni dall’inizio del conflitto, innescatosi in un qualche momento tra la primavera e l’estate 2014, e una sola cosa è certa: nel Donbas si continua a morire. Se per guerra si intendono movimenti di plotoni, battaglioni, eserciti, avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte, allora nel Donbas una vera guerra non c’è. Ma una volta è un razzo ucraino che cade su un palazzo in periferia, un’altra è una pattuglia ucraina che finisce in un’imboscata. Una mina, il colpo di un cecchino, una raffica. O una serie improvvisa e furiosa di scambi d’artiglieria come quella che, nei sei giorni tra il 29 gennaio e il 3 febbraio 2017, investì aree densamente popolate a Donec’k, Adiivka e Makiivka e uccise sette civili nel territorio controllato dagli autonomisti e tre in quello presidiato dall’Esercito regolare ucraino, con decine di feriti dall’una e dall’altra parte. Secondo l’Ufficio dell’Onu per i diritti umani, – che monitorava allora la situazione sul terreno – dall’inizio della guerra (2014) al dicembre 2017 sono caduti più di duemila civili e in totale, tra soldati, miliziani, volontari, poliziotti e persone qualunque, i morti sono stati oltre 10.200. Di fronte  un’Unione Europea muta che pare guardare alla guerra nel cuore della vecchia Europa come a un mero contrappeso alla guerra in Siria, ennesimo capitolo dell’infinito derby Usa-Russia.

CSCE 1975

Eppure in Europa era stato sviluppato un altro progetto, credo unico al mondo, per quello che rappresentava e per l’adesione che aveva riscosso nel lontano 1975: la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa [CSCE] aveva rappresentato un elemento chiave del processo di distensione durante la Guerra Fredda. Il processo della conferenza si concluse con l’Atto Finale di Helsinki, firmato da 33 nazioni europee più Canada e USA.  La “Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti alla conferenza” contenuta nell’Atto finale: elencava i dieci punti (detti “decalogo”) ispiratori per le relazioni future: 1) Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità. 2) Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza. 3) Inviolabilità delle frontiere. 4) Integrità territoriale degli stati. 5) Risoluzione pacifica delle controversie. 6) Non intervento negli affari interni. 7) Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo. 8) Eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli. 9) Cooperazione fra gli stati. 10) Adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale. I Paesi firmatari furono: Austria, Belgio, Bulgaria, Canada, Cecoslovacchia, Cipro, Città del Vaticano, Danimarca, Finlandia, Francia, Regno Unito, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Jugoslavia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Monaco, Repubblica Federale Tedesca, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, San Marino, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria, URSS, alla presenza di tutti i più grandi leader del mondo, dell’Est e dell’Ovest. La Santa Sede fu protagonista del processo che dalla Conferenza di Helsinki approdò in seguito alla creazione dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Una strategia basata sul realismo e sul dialogo per ottenere “cose possibili ed oneste” espressione del Card. Silvestrini.

Europa unita: limiti

La cronaca dei passi dell’Europa unita è segnata da fragilità non risolte: un parlamento eletto a suffragio universale che non legifera ma offre progetti di legge alla commissione formata dai rappresentati dei governi (la Commissione) dove l’unanimità consente i ricatti e spesso accade la spinta al ribasso nelle decisioni per non rimanere bloccati dal voto ricattatorio di qualcuno dei membri. L’unione monetaria dentro una economia e finanza concorrenziale e speculativa tra i diversi stati che non fa avvertire più il progetto europeo come un progetto solidale; la spinta a separazioni giocate tra autonomie e tentativi di secessione. Ma soprattutto il ritorno massiccio di tutti gli stati al riarmo e all’ aumento delle spese militari in una accentuata visione di sospetto e di confronto tra Europa Atlantica o della NATO e l’Europa dell’Est. Infine la questione della NATO così come dichiarato ufficialmente. “Di fronte alle sfide senza precedenti provenienti da Est e da Sud, è giunta l’ora di dare nuovo impeto e nuova sostanza alla partnership strategica NATO-UE”: così esordisce la Dichiarazione congiunta firmata l’8 luglio 2016, al Summit NATO di Varsavia, dal segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk e dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Un documento in 139 punti – concordato da Washington con Berlino, Parigi e Londra, che gli altri capi di governo, per noi allora Renzi, hanno sottoscritto a occhi chiusi. Una cambiale in bianco per la guerra che i rappresentanti dell’Unione Europea hanno messo in mano agli Stati Uniti che detengono il comando della NATO.

La via della pace

Papa Francesco ci invita ad altri atteggiamenti: “Non possiamo mai rassegnarci di fronte al dolore di interi popoli, ostaggio della guerra, della miseria, dello sfruttamento. Non possiamo assistere indifferenti e impotenti al dramma dei bambini, famiglie, anziani colpiti dalla violenza, Non possiamo lasciare che il terrorismo imprigioni il cuore di pochi violenti per seminare dolore e morte a tanti… Non può esservi nessuna giustificazione religiosa alla violenza, in qualunque modo essa si manifesti”. Cosa possiamo fare, quale strada percorrere? Il coraggio del dialogo. Per la pace ci vuole un dialogo tenace, paziente, forte, intelligente, per il quale niente è perduto. Il dialogo può vincere la guerra. Il dialogo fa vivere insieme persone di differenti generazioni che spesso si ignorano; fa vivere insieme cittadini di diverse provenienze etniche, di diverse convinzioni. Il dialogo è la via della pace. I leader religiosi sono chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace. Ciascuno è chiamato a divenire un artigiano della pace, unendo e non dividendo, estinguendo l’odio e non conservandolo, aprendo le vie al dialogo e non innalzando nuovi muri.

Non possiamo lasciare che il terrorismo imprigioni il cuore di pochi violenti per seminare dolore e morte a tanti. Diciamo a tutti: non può esservi nessuna giustificazione religiosa alla violenza, in qualsiasi modo essa si manifesti. Dialogare, incontrarci per instaurare la cultura del dialogo, la cultura dell’incontro.☺

 

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