il male di vivere   di Loredana Alberti
8 Marzo 2013 Share

il male di vivere di Loredana Alberti

 

L’11 febbraio del 96 Amelia Rosselli si tolse la vita gettandosi dalla mansarda del suo appartamento di via del Corallo. Queste parole per ricordarla:

“Era una giornata calda, come questa, calda con un sole in cielo azzurro, gli uccelli cantavano armoniosamente, issati su antenne televisive. Null’altro…

Pensai di scrivere qualche parola che non facesse perdere il senso, ma il Senso viene dato dal come vivi. Così anche per le rivoluzioni. La rivoluzione della mia anima come quella delle tante che mi avevano preceduta, sapevo essere relegata in un silenzio ed offesa immani. Non c’è appartenenza di lingua, né schieramento né luogo che ti appartenga. Così per Plath, per Bachmann, per Woolf, per Cvetaeva” (Loredana Alberti da  le radici del cuore in società dei pensieri n.2, 1992 pp 32-33).

Leggendo queste parole, Amelia mi strinse le mani e mi sorrise.

L’ho conosciuta nel 1986. Al Teatro del Guerriero avevamo organizzato una rassegna dal titolo déséquilibre e la invitai. Amelia era alta, fragile, con capelli da bambina, a caschetto. Camicette dal collo tondo, bianche o azzurrine a righe, gonne semplici o un pantalone blu. Abitavo con Fiorella Petronici in via Castiglione, in una casa di 300 metri che aveva fascino e mistero che conquistarono Amelia, specialmente per la sala di registrazione (così la chiamavamo) che era l’ex salottone da signora di Petronici, con piano a coda, mutato in sala di registrazione. Qui parlammo, ci confrontammo, la sentii per la prima volta leggere le sue poesie, la voce profonda e roca, a volte frammentata, non per esitazione ma per esigenze di ritmo. Parlammo a lungo della sua vita, della mia, delle comuni paure.

Capii subito che la musica, il suono erano il motivo conduttore della sua poesia e qualsiasi parola avesse usato, i famosi lapsus per Pasolini, le cadute da una lingua all’altra, la multipresenza nella mente di francese, inglese, italiano, le apparenti confusioni, in realtà erano attenti studi di combinazione sequenziale fra sillabe e suoni.

“Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema. […] Ma se, degli elementi individuabili nella musica e nella pittura spiccano, nel vocalizzare, soltanto i ritmi (durate o tempi) ed i colori (timbri o forme), nello scrivere e nel leggere le cose vanno un poco diversamente: noi contemporaneamente pensiamo. In tal caso non solo ha suono (rumore) la parola; anzi a volte non ne ha affatto, e risuona soltanto come idea nella mente. […] La lingua in cui scrivo volta a volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di molti popoli e riflettibile in molte lingue” (Spazi metrici op.cit ).

La poesia di Rosselli é la stratificazione, l’allitterazione, l’onomatopea, la frantumazione iterata che porta alla composizione di un brano, come la sua conoscenza musicale aveva desiderato.

Scrive, “uno schema che riproduca quattro dimensioni in una continuità spazio-temporale, nel quale intensità, altezza, ritmo e timbro verrebbero derivati dalla serie degli armonici, determinandosi e producendosi a vicenda”. Conservando la forma ma modificando invece la qualità. “Il fondamentale (Le sinusoidi attraverso le quali si scompone il suono sono dette "armoniche": esiste una armonica detta "fondamentale": il suo nome deriva dal fatto che qualsiasi altra armonica avrà una frequenza che sarà pari a un multiplo della fondamentale. Alla frequenza delle armoniche sono legate le loro ampiezze e le loro fasi attraverso determinate leggi) può salire e scendere, ed essere considerato mobile entro il sistema generato da esso stesso”.

In Spazi metrici: “questa lettera, sonora o no, timbrica o no, grafica o formale, simbolica e funzionale insieme, questa lettera sonora ma ugualmente rumore creava nodi fonetici (chl, str; stv, biv) non necessariamente sillabici. Ed erano, infatti, rumore. Bastava che suonassi un preludio di Chopin o di Bach per reinterpretarlo quasi subito dopo in forma poetica!” (Amelia Rosselli “ Spazi metrici “ in Antologia poetica Garzanti 1987).

Il male di vivere era nel suo sguardo perso in un Altrove impenetrabile, spesso era loquacità ironica “fai come me, quando stai male, chiuditi in casa e strilla forte”, in pudori; la sua volontà di conoscere Roversi per l’amore per Scotellaro e la timidezza di entrambi in quell’incontro. Li lasciai soli a parlare in via dei poeti alla Palmaverde.

Dura, pura, sradicata: sempre in viaggio per trovare un porto. La sua poesia é forte e determinata capacità di sapere di essere in una lingua d’esilio, come direbbe Kristeva, ambiguo fra essere ed apparire: I miei versi poetici non poterono scampare più all’universalità dello spazio unico; le lunghezze ed i tempi dei versi erano prestabiliti, la mia unità organizzativa era definibile, i miei ritmi si adattavano non ad un mio volere soltanto ma allo spazio già deciso e questo spazio era del tutto ricoperto da esperienze, realtà, oggetti, sensazioni (Spazi metrici pag 78 op.cit.).

Lingua “d’esilio perché straniera" é la poesia. Ha ragione Jakobson: la poesia è una "patologia" della lingua. Una "follia" della lingua. La “follia” di Sylvia Plath, di Virginia Woolf, di Marina Cvaeteva, di Cristina Campo, di Amelia Rosselli ed altre è l’unico filo conduttore di un ordito poetico che è una costruzione ben precisa e matematica.

Quando Amelia mi parlava delle sue angosce, delle sue paure io ero dentro di esse, le vivevo e le ho credute come vere. Quando girava gli occhi cerulei con tragica insistenza contro il nemico che l’assaliva sempre, il nemico mi era davanti. Era follia? Non so. So però che, come ritiene Robert Lowell per Sylvia Plath, le poesie per Amelia non sono “la registrazione degli eventi” ma sono “eventi”.☺

 ninive@aliceposta.it

 

eoc

eoc