Il sottotitolo di questa storia vera potrebbe essere: “Come la semplicità spiega molte cose”, ma non sono Voltaire, lasciamo stare.
Una bambina italiana con madre cattolica e padre musulmano aveva da tempo assimilato l’idea che i genitori avessero gesti e parole diversi per ringraziare Dio del cibo servito sulla tavola. Aveva anche imparato a fare il segno della croce e delle tre persone quella che ricordava meglio, ovviamente, era la prima: il Padre.
A poco più di tre anni non poteva sapere che proprio il Padre era il legame fra le tre religioni monoteiste; che la parola Allah è la traduzione araba per dire Dio, quello che in aramaico aveva lo stesso suono dell’invocazione innalzata dall’alto della croce: Elì o Eloì, come troviamo nei vangeli di Matteo e Marco. Entrambi questi racconti della morte di Cristo sottolineano la difficoltà dei presenti a comprendere il senso vero di quelle parole, le ultime, non solo per la limitatezza umana difronte ad un così grande mistero, ma anche per banali questioni linguistiche. A Gerusalemme, infatti, non si parlava l’aramaico, il dialetto della Galilea che aveva tradito anche i discepoli nella difficile notte che precede la crocifissione.
Quando vide la prima volta la zia che si era cambiata d’abito per raccogliersi in preghiera, con il velo in testa, ebbe un attimo di timore, ma la curiosità fu più forte della paura e piano piano attraversò tutto il corridoio per arrivare nella stanza dove la donna era in ginocchio a mormorare le sue orazioni. Dalla porta sbirciava per capire se era l’ennesimo scherzo della parente giocherellona, tanto che le si avvicinò per toccarla e farle il solletico; ben presto capì che si trattava di una cosa seria e volle rimanere a guardare nonostante i ripetuti inviti da parte della madre a lasciare tranquilla la zia durante la preghiera. Imparò in fretta il gesto di muovere il dito su e giù per tenere il conto delle preghiere, con la leggerezza tipica dei bambini, come se fosse un gioco, un rituale scherzoso.
Il giorno successivo era ormai sparita la paura, ma la zia velata aveva un aspetto decisamente più austero e non se la sentiva di giocare con lei. Una cosa era certa: in determinate ore del giorno il cambiamento d’abito segnava l’inizio di un rito, sempre uguale nei tempi e nei gesti, che sembrava cambiare anche l’ atteggiamento della donna.
Un giorno, all’ora di pranzo, venne chiesto alla bambina di andare a vedere dov’era la zia per dirle che era pronto. Lei andò dritta nella camera dove la trovò di nuovo con l’abito lungo e scuro e silenziosa nel suo raccoglimento. Appena tornata, da sola, le chiesero: “Che sta facendo zia?”. Disinvolta e convinta rispose: “Sta facendo il nome del Padre!” e, nel dirlo, si portò una mano alla fronte. A tutti, cristiani e musulmani, apparve un sorriso sulle labbra pensando: “Senti che sciocchezze che dicono i bambini”. L’unica seria era lei, la piccola, che in semplicità d’animo aveva capito che i figli trovano ascolto presso il Padre perché li ama tutti, incondizionatamente.
Una mamma
Il sottotitolo di questa storia vera potrebbe essere: “Come la semplicità spiega molte cose”, ma non sono Voltaire, lasciamo stare.
Una bambina italiana con madre cattolica e padre musulmano aveva da tempo assimilato l’idea che i genitori avessero gesti e parole diversi per ringraziare Dio del cibo servito sulla tavola. Aveva anche imparato a fare il segno della croce e delle tre persone quella che ricordava meglio, ovviamente, era la prima: il Padre.
A poco più di tre anni non poteva sapere che proprio il Padre era il legame fra le tre religioni monoteiste; che la parola Allah è la traduzione araba per dire Dio, quello che in aramaico aveva lo stesso suono dell’invocazione innalzata dall’alto della croce: Elì o Eloì, come troviamo nei vangeli di Matteo e Marco. Entrambi questi racconti della morte di Cristo sottolineano la difficoltà dei presenti a comprendere il senso vero di quelle parole, le ultime, non solo per la limitatezza umana difronte ad un così grande mistero, ma anche per banali questioni linguistiche. A Gerusalemme, infatti, non si parlava l’aramaico, il dialetto della Galilea che aveva tradito anche i discepoli nella difficile notte che precede la crocifissione.
Quando vide la prima volta la zia che si era cambiata d’abito per raccogliersi in preghiera, con il velo in testa, ebbe un attimo di timore, ma la curiosità fu più forte della paura e piano piano attraversò tutto il corridoio per arrivare nella stanza dove la donna era in ginocchio a mormorare le sue orazioni. Dalla porta sbirciava per capire se era l’ennesimo scherzo della parente giocherellona, tanto che le si avvicinò per toccarla e farle il solletico; ben presto capì che si trattava di una cosa seria e volle rimanere a guardare nonostante i ripetuti inviti da parte della madre a lasciare tranquilla la zia durante la preghiera. Imparò in fretta il gesto di muovere il dito su e giù per tenere il conto delle preghiere, con la leggerezza tipica dei bambini, come se fosse un gioco, un rituale scherzoso.
Il giorno successivo era ormai sparita la paura, ma la zia velata aveva un aspetto decisamente più austero e non se la sentiva di giocare con lei. Una cosa era certa: in determinate ore del giorno il cambiamento d’abito segnava l’inizio di un rito, sempre uguale nei tempi e nei gesti, che sembrava cambiare anche l’ atteggiamento della donna.
Un giorno, all’ora di pranzo, venne chiesto alla bambina di andare a vedere dov’era la zia per dirle che era pronto. Lei andò dritta nella camera dove la trovò di nuovo con l’abito lungo e scuro e silenziosa nel suo raccoglimento. Appena tornata, da sola, le chiesero: “Che sta facendo zia?”. Disinvolta e convinta rispose: “Sta facendo il nome del Padre!” e, nel dirlo, si portò una mano alla fronte. A tutti, cristiani e musulmani, apparve un sorriso sulle labbra pensando: “Senti che sciocchezze che dicono i bambini”. L’unica seria era lei, la piccola, che in semplicità d’animo aveva capito che i figli trovano ascolto presso il Padre perché li ama tutti, incondizionatamente.
Il sottotitolo di questa storia vera potrebbe essere: “Come la semplicità spiega molte cose”, ma non sono Voltaire, lasciamo stare.
Il sottotitolo di questa storia vera potrebbe essere: “Come la semplicità spiega molte cose”, ma non sono Voltaire, lasciamo stare.
Una bambina italiana con madre cattolica e padre musulmano aveva da tempo assimilato l’idea che i genitori avessero gesti e parole diversi per ringraziare Dio del cibo servito sulla tavola. Aveva anche imparato a fare il segno della croce e delle tre persone quella che ricordava meglio, ovviamente, era la prima: il Padre.
A poco più di tre anni non poteva sapere che proprio il Padre era il legame fra le tre religioni monoteiste; che la parola Allah è la traduzione araba per dire Dio, quello che in aramaico aveva lo stesso suono dell’invocazione innalzata dall’alto della croce: Elì o Eloì, come troviamo nei vangeli di Matteo e Marco. Entrambi questi racconti della morte di Cristo sottolineano la difficoltà dei presenti a comprendere il senso vero di quelle parole, le ultime, non solo per la limitatezza umana difronte ad un così grande mistero, ma anche per banali questioni linguistiche. A Gerusalemme, infatti, non si parlava l’aramaico, il dialetto della Galilea che aveva tradito anche i discepoli nella difficile notte che precede la crocifissione.
Quando vide la prima volta la zia che si era cambiata d’abito per raccogliersi in preghiera, con il velo in testa, ebbe un attimo di timore, ma la curiosità fu più forte della paura e piano piano attraversò tutto il corridoio per arrivare nella stanza dove la donna era in ginocchio a mormorare le sue orazioni. Dalla porta sbirciava per capire se era l’ennesimo scherzo della parente giocherellona, tanto che le si avvicinò per toccarla e farle il solletico; ben presto capì che si trattava di una cosa seria e volle rimanere a guardare nonostante i ripetuti inviti da parte della madre a lasciare tranquilla la zia durante la preghiera. Imparò in fretta il gesto di muovere il dito su e giù per tenere il conto delle preghiere, con la leggerezza tipica dei bambini, come se fosse un gioco, un rituale scherzoso.
Il giorno successivo era ormai sparita la paura, ma la zia velata aveva un aspetto decisamente più austero e non se la sentiva di giocare con lei. Una cosa era certa: in determinate ore del giorno il cambiamento d’abito segnava l’inizio di un rito, sempre uguale nei tempi e nei gesti, che sembrava cambiare anche l’ atteggiamento della donna.
Un giorno, all’ora di pranzo, venne chiesto alla bambina di andare a vedere dov’era la zia per dirle che era pronto. Lei andò dritta nella camera dove la trovò di nuovo con l’abito lungo e scuro e silenziosa nel suo raccoglimento. Appena tornata, da sola, le chiesero: “Che sta facendo zia?”. Disinvolta e convinta rispose: “Sta facendo il nome del Padre!” e, nel dirlo, si portò una mano alla fronte. A tutti, cristiani e musulmani, apparve un sorriso sulle labbra pensando: “Senti che sciocchezze che dicono i bambini”. L’unica seria era lei, la piccola, che in semplicità d’animo aveva capito che i figli trovano ascolto presso il Padre perché li ama tutti, incondizionatamente.
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