Il palcoscenico
5 Maggio 2017
La Fonte (351 articles)
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Il palcoscenico

All the world is a stage: parola di Shakespeare.

Un po’ è così, e forse per questo il teatro da sempre mi inquieta: mi trovo lì a guardare una scena e poi l’altra con quell’ attore e poi l’altro e quella scena in qualcosa somiglia alla terra che calco e quegli attori sono una parte di me, come una scatola cinese, una matrioska, un gioco illusorio di incastri in cui l’urlo di dolore e l’espressione di gioia si stemperano in un medesimo crudele grottesco, perché in fondo sono io la marionetta e me stanno recitando sul proscenio e nel gran teatro del mondo.

Più che a teatro mi sento a mio agio tra le narrazioni fantastiche e i miti o con la lirica e il “caro immaginar” di Leopardi, che, non ignaro dell’“arido vero”, di qui proprio rilancia il valore della solidarietà e dell’agire politico inteso come agire coeso di un’umanità fraterna, non fratricida.

Quando qualche giorno fa un alunno mi ha chiesto se potessi spiegargli i termini della proposta referendaria sulla modifica della Costituzione ed esporgli le ragioni del sì e quelle del no, da un parte ne sono rimasta contenta, perché mi piace sapere i ragazzi svegli e impegnati nell’attualità, d’altra parte ho avvertito la sensazione fastidiosa di dover recitare per il gran teatro del mondo e, ancor più fastidiosa, la sensazione di dover inscenare io stessa un dramma ad uso di spettatori ingenui, che non sanno della finzione e la credono verità.

Certo parlerò del referendum, sto studiando per bene, mi sto fornendo di informazioni più puntuali di quelle che già avevo in materia, sarò passabilmente oggettiva e possibilmente imparziale, ma è un gran fatica: nell’opportunità storica, nell’utilità politica, nell’urgenza sociale, nella sostenibilità ecologica di questo referendum, io in tutto questo non credo. Se voterò, sarà per una forma di intima coerenza ideologica, ad ogni modo sofferta, perché questo referendum è per me una farsa di corte, un dramma borghese, da qualunque parte lo si guardi un’inutile escrescenza per il nostro paese, premuto da mille realtà amare ed illuso per contrappunto da almeno seicento attori provetti.

Mi dispiace tale mio scetticismo, perché la politica io l’ho sempre ritenuta una nobile arte, e la dialettica e l’agonismo tesi nella definizione di pratiche perseguibili in vista del bene comune, idea guida ed obiettivo della politica stessa; il fatto è che il legame tra azione politica e comunità della polis (concepita come Stato e regione e città) si è tanto assottigliato, che ad ora moltissimi italiani non sentono il referendum prossimo come una pratica politica loro, che li riguardi, non lo concepiscono; tanti – e io tra questi – avrebbero preferito sentir discutere con la stessa acrimonia di lavoro e di scuola o di salute e stato sociale. Allora sì che una proposta referendaria sarebbe stata comprensibile, parlando la lingua chiara, secca, anche dura, della realtà; del resto fin nell’uso della parola e nel nitore della stessa sta la differenza tra demagogia e democrazia, tra anti-politica e politica.

In un suo sermone sant’Agostino scriveva che il mondo è come un torchio che spreme e distingue la morchia e l’olio e che nel mondo tale spremitura ha luogo attraverso la fame, la guerra, l’indigenza, la carestia, il bisogno, la morte, la cupidigia: a questa morchia – io credo – dovrebbe guardare la nostra politica, per recuperare un po’ della sua antica dignità.

Penso al discorso che Tucidide, storico greco, attribuisce a Pericle, politico e capo del partito democratico ateniese; il discorso, pronunciato in onore dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, è un commosso elogio della democrazia ateniese e nella sua parte iniziale pare in qualcosa simile alla prima parte della nostra Costituzione. Così esordisce Pericle:

La nostra costituzione non calca l’orma di leggi straniere. Noi siamo piuttosto d’esempio agli altri senza imitarli. Il suo nome è democrazia, perché affidiamo la Città non ad un’oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; ma in realtà le sue leggi danno a tutti indistintamente i medesimi diritti nella vita privata; e per quanto riguarda gli onori ognuno viene prescelto secondo la fama che gode, non per appartenere all’uno o all’altro partito…Né avviene che la povertà offuschi il prestigio e arresti la carriera di chi può rendere buoni servigi alla città…Senza alcuna costrizione nella vita privata, nei rapporti pubblici non trasgrediamo la legge, soprattutto per reverenza verso di essa: ubbidendo ai magistrati in carica e alle diverse leggi, specialmente a quante proteggono gli offesi e a quante, senza essere scritte, recano come universale sanzione il disonore…”.

Pericle-Tucidide prosegue, vibrando di ardore politico e di rispetto dell’idea di democrazia, e ci indica la distanza tra l’ imperitura democrazia greca e la nostra già vecchia democrazia, i cui rappresentanti eletti dal popolo si scontrano in duelli di fioretto e di spada sulla seconda parte della Costituzione, avendo troppo spesso e troppo colpevolmente negletto la prima, che di quella Costituzione è essenza e fondamento.

È una questione di qualità o una formalità, non ricordo più bene, una formalità, cantavano implacabili i CCCP nel 1985. Sembra solo un secolo fa.☺

 

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