il ritorno della diseguaglianza    di Silvio Malic
4 Ottobre 2013 Share

il ritorno della diseguaglianza di Silvio Malic

 

“Cose inaudite

dalla fondazione del mondo”

(D.M.Turoldo)

Con il prevalere dell’ideologia del mercato e la crisi dello Stato Sociale, le società occidentali sono attraversate da un processo che accentua le diseguaglianze e che porta in luce una tendenza ad autentiche forme di secessione sociale da parte dei ceti privilegiati. È sostenibile una democrazia che accetta di consegnare all’esclusione una parte consistente dei suoi concittadini? Chi esamina il panorama prodotto dal fenomeno della globalizzazione – come restringimento del nostro pianeta e della crescente consapevolezza collettiva del fenomeno – è immediatamente colpito da una dura polarizzazione. Affiorano due facce che esprimono da una parte la precisa scoperta della necessità di un nuovo codice cosmopolitico di valori e di comportamenti e dall’altra l’esistenza e il consolidarsi delle differenze economiche, della stratificazione dei ruoli, delle gerarchie sociali. Mentre si ripropone incessante l’aspirazione ad una cittadinanza planetaria, molti  fatti e discorsi, all’interno dei paesi e nel mondo, ci mettono di fronte al ritorno delle diseguaglianze. La nostra epoca sembra oscillare tra l’universalismo atteso, ma ancora incerto, e un tribalismo aggressivo e selvaggio.

Posti di fronte alla comunicabilità di quanto accade nel mondo e diventati consapevoli della presenza di enormi pericoli che investono l’intera umanità e che sembrano richiedere la nascita di una solidarietà di specie, un numero crescente di uomini e donne si chiede se il nostro pianeta sia un semplice luogo in cui esseri distanti e diversi sono casualmente gettati o, al contrario, non debba essere vissuto come una comunità a cui tutti siamo chiamati ad aderire, a partecipare e a renderla vivibile ed ospitale per tutta la grande famiglia umana, l’unica titolata a gestire e promuovere i processi, nell’uno e nell’altro orizzonte di senso.

cittadini universali

La prima conseguenza di questo processo inarrestabile é la nascita della cittadinanza universale, non più legata all’appartenenza esclusiva o carceraria ad un determinato Stato. Una cittadinanza che ha inizio in un luogo preciso del pianeta ma che non ha più, di fatto, il termine del percorso esistenziale nello stesso luogo: questo, per centinaia di milioni di esseri umani, è semplicemente avvenuto ed è solo l’inizio del fenomeno. È accaduto che il restringimento sia fisico che psicologico del mondo ha fatto avvertire l’esigenza di non limitare quel vincolo di solidarietà – implicito nel concetto di cittadinanza – unicamente ai componenti dello stesso Stato, ma di estenderlo fino a comprendervi, con misure appropriate e intelligenti, anche coloro che si collocano al di là di tali confini. La cittadinanza di cui si parla non è quella politica, connaturale al luogo di nascita (in Italia non è neppure questo) ma quella sociale. Il lungo dibattito dal secondo dopoguerra ad oggi ha contribuito a chiarire che cittadinanza riguarda non solo il diritto di votare e contribuire, in tal modo, alle decisioni collettive (diritti civili e politici), ma quello di essere inclusi nella distribuzione e nel godimento dei servizi essenziali (diritti sociali, economici e culturali). La cittadinanza universale, in analogia con quella dello stato, non è il consolidamento, in una gabbia di ferro, della propria condizione iniziale alla nascita. Il punto nuovo di riferimento non è la nascita in un ipotetico Stato mondiale, bensì è l’obiettivo, modesto ma concreto, di farsi carico delle abissali diseguaglianze di vita tra gli esseri umani nello stesso pianeta, se non per eliminarle (non esiste il colpo di spugna, progetto folle di tiranni e totalitarismi) almeno per ridurle ad un livello eticamente accettabile, ovvero, a livelli di vita differenti e aperti a possibilità ulteriori, comunque dignitose per quanto essenziale alla vita di ognuno.

da sudditi ad individui

Proprio le società più evolute, nel passaggio dal medioevo alla modernità e poi nello sviluppo interno alla modernità hanno introdotto innovazioni che è bene richiamare per la loro rilevanza in parte politica ma soprattutto sociale. Rapidamente: nell’ assolutismo dei poteri medioevali tutti si era sudditi legati alla benevolenza dei Signori e la quasi totalità della popolazione doveva la propria sopravvivenza alle attività servili, nei campi come nelle corti dei primi; la parola che racchiudeva le popolazioni era “servi”. La civiltà comunale, di origine latina, rappresentò un primo passaggio ad una soggettività libera della persona (artigiani e corporazioni) e delle comunità autogestite perfino al governo di se stesse, mentre la Magna Charta, anglosassone, concedeva rappresentanza ai Lord (Signori) ma ugualmente concedeva ai poveri l’uso delle foreste e di quanto in esse contenuto per la loro sussistenza. La modernità portava alla luce sempre più il valore dell’individuo in quanto essere umano senza però intaccare l’impianto di signoraggio-servitù fino alle rivoluzioni americana e francese per le quali l’individuo assumeva (sebbene ancora per censo non per diritto universale) il ruolo di cittadino di una società democratica, ancora però innervata sui grandi proprietari, divenuti, con la nascita della industrializzazione meccanica, i primi capitalisti alla pari dei contadini divenuti in parte operai salariati. Tutti questi passaggi si portano dentro il problema del “pauperismo” e della forbice tra i possidenti e coloro che non hanno proprietà su cui basare la propria esistenza e sopravvivenza.

diritti sociali

A partire dalla fine del XIX secolo si produce qualcosa di inedito e innovativo: lo sviluppo della proprietà sociale. Il punto di partenza è il problema avvertito che l’ individuo moderno, in gran parte povero, ha bisogno del supporto-proprietà per poter accedere ad un vissuto autonomo, libero e significativo. La maggioranza dei contadini non ha proprietà come quella dei contadini divenuti operai: gli uni e gli altri posseggono solo il proprio lavoro e le diseguaglianze, il disagio sociale non sono intaccati. La risposta, abbozzata alla fine del XIX secolo, con l’inizio della cosiddetta “sicurezza sociale” avvierà un processo di generalizzazione di tutela all’insieme dei lavoratori e, ben presto, all’insieme della popolazione: anche in non proprietari di cose, sono proprietari di nuovi diritti riconosciuti che mirano a tutelare la loro vita sebbene non abbienti (diritti sociali). Il contesto è la società salariale rappresentativa, ivi compresi i non attivi, della popolazione che comincia a beneficiare di protezioni o servizi essenziali connessi progressivamente al lavoro salariale. Lo stato sociale interviene essenzialmente come garanzia della sicurezza, come riduttore di rischi e tutela della vita. Avviato con le persone più sfavorite è arrivato a tutelare l’insieme della popolazione fino a configurarsi come il grande ordinatore di una società assicurativa: la riabilitazione  sociale dei non proprietari, accade  accedendo a protezioni, risorse e servizi che consentono di essere integrati nella società. Come – usando un’immagine – su una scala mobile: tutti salgono sebbene la distanza tra ciascun gradino su cui si è poggiati rimane costante.

futuro uguale lavoro

Come pensare il futuro prossimo di fronte al ritorno delle diseguaglianze? Superare i due scogli del passato: la società del lasseir-faire dei liberali, in cui stupidamente ci siamo rituffati, e le opzioni del socialismo rivoluzionario assertrici di un’eguaglianza assoluta, prodotta dentro oppressione generalizzata. Invertire la tendenza del presente. Dopo la metà degli anni settanta del novecento la precarizzazione delle appartenenze collettive e delle categorie omogenee, mentre cresce il senso della cittadinanza mondiale, ha prodotto cose inaudite dalla fondazione del mondo: l’individuo contemporaneo, al contrario dei suoi simili di qualsiasi sistema sociale del passato, dovrebbe essere il primo a vivere ignorando di vivere in società: individuo disconnesso a cui si chiede socialità a-sociale, individuo per difetto.

Da dove generare pensieri lunghi aperti al futuro? Dal lavoro. Assistiamo inermi allo scontro dei diritti di proprietà che muovono guerra a tutti gli altri diritti: un vero big-bang interno ai diritti di cittadinanza. Il lavoro  è momento privilegiato e forte di identità personale, familiare e di cittadinanza sociale. Per questo non è sufficiente limitarsi ad assistere la disoccupazione. Se tutto il novecento, anche nella destra padronale, fu attento al lavoro e al suo valore, siamo ora nella curiosa condizione in cui il lavoro la destra lo rimuove e la sinistra lo sottovaluta. Il futuro sarà opera di menti e mani di soggetti a vario modo co-protagonisti o semplicemente non sarà. ☺

 

eoc

eoc