Impegno nella società
30 Ottobre 2014 Share

Impegno nella società

Non è facile parlare di Politica, perché la Politica dovrebbe essere, in primo luogo, l’arte del fare, più che del commentare. Non è un caso che uno dei testi, forse il testo fondamentale di uno dei maestri della Politica del ‘900, Vladimir Lenin, si titolava Che fare. Giustamente il che fare è sempre stato un imperativo, quasi un’ossessione della sinistra sia riformista che rivoluzionaria.

Il problema fondamentale per i socialdemocratici veri è stato quello di rendere più eguale la redistribuzione della ricchezza, meno ingiusta la società, più democratico il capitalismo, sino ad arrivare agli svedesi che hanno ipotizzato forme di partecipazione dei lavoratori alla proprietà dell’impresa. Per i rivoluzionari l’obiettivo di cambiare alla radice i rapporti di produzione e sociali si è risolto nel fallimento dei paesi del socialismo reale, in esperienze diffuse, alternative nelle metropoli del capitalismo e nelle grandi lotte di liberazione dal colonialismo e dall’ imperialismo nei paesi del Sud del mondo. Sia i riformisti che i rivoluzionari hanno, però, lasciato in eredità una straordinaria esperienza con al centro i diritti nella società e nel mondo del lavoro: lo stato sociale e lo statuto dei diritti dei lavoratori.

Questo sino a ieri, sino a quando il capitalismo globale, ovvero l’ internazionalizzazione della finanza, della produzione di merci, delle tecnologie e del mercato del lavoro non ha cambiato radicalmente l’ organizzazione dell’economia, delle società e delle relazioni fra i paesi nel mondo. Il nostro Renzi è solo l’ultimo dei cantori di questo nuovo mondo. Il vero paradosso della rivoluzione che ha segnato la storia di questi decenni è lo spaesamento, lo smarrimento e la confusione mentale della sinistra. Una sinistra politica e sindacale, riformista e rivoluzionaria che aveva aperto il novecento con il canto dell’Internazionale e oggi, proprio quando tutto diviene globale, questa stessa sinistra consuma la sua funzione storica nei ghetti nazionali, senza nulla dire e fare nello scenario europeo e mondiale. In verità sulla fine del novecento e ai primi degli anni 2000 si è avuto una grande movimento critico verso i processi di globalizzazione, ma quel movimento, che ha lasciato una preziosa eredità teorica e tante utili esperienze, non è riuscito a mutare il corso della politica nel mondo, né a trasformarsi in una istituzione politica. Non solo, al mutismo e all’impotenza della sinistra politica, si è sommata e non poteva che essere così, una disgregazione sociale che la crisi economica ha trasformato in solitudine e disperazione sociale.

Perché, allora, sorprendersi se Renzi che è un campione del dire più che del fare aumenta i suoi voti? Perché restare allibiti se la caduta degli ultimi “diritti” avviene nell’indifferenza generale e se la protesta resta frammentaria e dispersa? Perché essere interdetti, se la CGIL appare un gruppo, anche se numeroso, di reduci, più che un’ avanguardia del futuro. Questo e non da oggi, è lo stato dell’arte. Riconoscere questo stato di cose è tutt’altro che una dichiarazione d’impotenza o una resa senza condizioni. Non siamo alla fine della storia e al funerale della politica. Bisogna, però, avere la consapevolezza che da questa sconfitta storica non si esce rabberciando qualche partitino più o meno di sinistra, o, anche semplicemente, ritornando nella mitica società civile che poi così civile non è, o anche con una agitazione sociale stile anni ‘70.

“Agire localmente e pensare globalmente” era lo slogan dei no – global, del Forum sociale di Porto Alegre, noi dell’alta università della sinistra consideravamo quelle parole d’ordini un po’ rozze e soprattutto impolitiche. Sarebbe un segno di onestà intellettuale fare un’autocritica, non perché quei movimenti e quelle parole d’ordine fossero i Grundrisse di Marx, o Stato e Rivoluzione di Lenin, il nuovo Vangelo o le Lettere di San Paolo. Vi erano però in quelle parole d’ordine e in quelle esperienze di movimento almeno due intuizioni che andrebbero riprese.

La necessità di una nuova teoria politica che parta dal mondo, dalle sue grandi contraddizioni e dalla consapevolezza che siamo entro una nuova epoca nella quale miliardi di persone, sino a ieri fantasmi della storia, sono oggi divenute protagoniste. Una teoria capace di cogliere il nesso stretto fra degrado ambientale, frammentazione sociale e crisi economica, capace quindi di tenere insieme in un solo progetto territorio, sviluppo sostenibile e democrazia. Una teoria che sappia ragionare sugli straordinari mutamenti che le nuove tecnologie hanno indotto non solo nella produzione di ricchezza, ma anche nel vivere sociale e nell’identità dell’ individuo.

In secondo luogo, in quel movimento era forte e chiara una critica radicale alla Politica, non solo alla sua miseria morale e al sistema di corruzione che ha alimentato, ma anche alla sua lontananza dai problemi del popolo e la sua impotenza di fronte alla fragilità e alla crisi della democrazia.

Non c’è, e non ci può essere né un Marx, né un Lenin che possano dare una risposta ai problemi di questo nostro ventunesimo secolo. Solo una grande intelligenza collettiva, un tenace e creativo impegno nella società possono ispirare il cambiamento e la speranza di un futuro diverso.☺

 

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