Informazioni disturbate
6 Giugno 2022
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Informazioni disturbate

“Al peggio non c’è mai fine” recita il vecchio adagio. E sottintende una seppur cruda verità. Cerco di spiegarmi. A tutti è ormai noto il vocabolo inglese fake news [pronuncia: feich nius] che consapevolmente, utilizziamo per indicare le “noti- zie false o inventate”. Ci siamo abituati alla loro presenza, anzi riusciamo a volte a riconoscerle, quasi sempre siamo bravi a non farci prendere in giro. Ma è proprio così?

Fake è un verbo inglese che ha perso la sua plurisemantica valenza originaria per costituire la locuzione di cui sopra; tra i vari significati che ha assunto nel corso degli ultimi due secoli prevale quello di “contraffare o fingere”.

Quando accennavo al peggio mi riferivo alla comparsa recente nel mondo della tecnologia, per poi sfociare in altri campi – comunicazione, stampa, social media – di un altro dispositivo, il deep fake [pronuncia: dip feich], cui l’aggettivo deep – in italiano ‘profondo’- offre il senso di rafforzata e ben costruita non corrispondenza alla realtà. Il termine inglese, per definizione, si riferisce a foto o video che vengono realizzati manipolando il volto e/o la voce di una persona. Non semplici fotomontaggi, nessun ‘copia-incolla’ più o meno accurato, ma veri e propri contenuti inediti, estremamente realistici. Questa tecnica consiste nel catturare immagini di persone da Internet, rielaborarle, magari modificarle ed inserirle in un contesto diverso da quello originario: in quest’ultima fase interviene un sofisticato algoritmo in base al quale il fake trova nuova collocazione. Tutto ciò può avvenire grazie allo sviluppo della cosiddetta intelligenza artificiale.

Se da un lato non si può che elogiare l’avanzamento della tecnologia che apre prospettive sempre più sorprendenti in tutti i settori, dall’altro si devono segnalare purtroppo insidie e pericoli non trascurabili. Per molte aziende è diventata una necessità conoscere i rischi in cui si può incorrere in presenza di un deep fake: molto comune e diffuso è il furto d’identità che consiste nell’ utilizzare i volti e i nomi di altre persone in contesti differenti da quelli propri e veicolarli per mezzo dei social network che diventano poi la maggiore fonte di ricezione di questi materiali.  Danni sul piano economico, certamente, ma anche e soprattutto su quello mediatico: un’immagine stravolta, inquinata, lontana dalla verità. Ed è prevedibile immaginarne le conseguenze.

Se deep fake appare come un monito per un’attenta e circostanziata osservazione della realtà al fine di giungere ad una corretta e fedele rappresentazione della stessa, gli eventi – specie i recenti, in clima di guerra – danno prova di tutt’altro. Si sa che un conflitto armato porta con sé una buona dose di propaganda ovvero mistificazione delle azioni effettuate e degli obiettivi che si intende raggiungere, ma possiamo allentare la presa, affidarci a ciò che sentiamo dire, leggiamo, riceviamo come notizie o approfondimenti attraverso i vari mezzi di cui disponiamo? Siamo disposti a mantenere il ruolo – per dirla con Tomaso Montanari – di “cittadini tenuti in stato di minorità e di cattività culturale” (Eclissi di Costituzione)?

A rigor di logica credo che sia necessario riflettere sulle motivazioni profonde di tale fenomeno, quello del deep fake appunto, senza timore e con forte convinzione. Diffondere materiale non autentico, affollare le piattaforme di elementi poco rispondenti a dati certi, veicolare messaggi tendenti a suscitare consenso, apprensione, falsa indignazione: tutte azioni volte a mascherare la realtà, a presentarla in una forma edulcorata oppure crudele allo scopo di illudere o esasperare il potenziale pubblico. Al riguardo il sociologo Marco Revelli scriveva qualche giorno fa: “L’Italia è questa roba qua: una società civile caduta, con un sistema dell’informazione decotto, monopolizzato da una logica di affari”.

È facile quindi cadere preda di fake news e ancor più di deep fake in questo vortice continuo che gli eventi recenti portano con sé, avvolgendoci, quasi soffocandoci con il delirio di aggiornamenti, informazioni, dati, statistiche. Che siano il prodotto di un meccanismo truffaldino che intende travisare i fatti per scopi criminali, o siano elementi poco rispondenti al vero ma frutto di riflessioni o sensazioni personali, buona parte di quanto arriva alla nostra mente non è sempre verificabile o accertato: secondo un altro grande sociologo, Giuseppe De Rita, “l’opinionismo è la malattia mortale di questo tempo. Ciascuno purtroppo sente su di sé il diritto di avere un’opinione, e un’ opinione su ogni tema, a qualunque costo”.

Il sistema dell’informazione dovrebbe rappresentare – a mio avviso – un presidio di libertà, democrazia e rispetto della verità. Oggi ci stiamo sempre più rendendo conto che questo sistema fa fatica ad incarnare lo spirito di servizio alla collettività. Noi, semplici utenti, desiderosi di informazioni certe, definite ma soprattutto verificate, continuiamo ad essere i destinatari di una comunicazione, se non malata, fortemente disturbata, la cui funzione-guida stenta a manifestarsi: “è diventata ancora più fitta la notte in cui brancoliamo e ancor più deboli sono le poche luci che illuminano il cammino di chi non rinuncia a pensieri di umanità” (T. Montanari).☺

 

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