Non sono solo le rughe sottili che mi ricamano il viso, le righe sotto il collo, le mani con le macchie, i segnali che mi avvertono che la giovinezza è finita, ma l’ accorgermi che non c’è più quell’ansia viva di conoscere, di sapere che una volta mi animava.
Anni ‘60. Noi studenti, in un epoca in cui solo pochi proseguivano la scuola, ci consideravamo gli intellettuali tra la nostra gente e ci impegnavamo con tenacia ed orgoglio a costruire la nostra cultura, ipotizzando un riscatto sociale che trasformasse in meglio la realtà chiusa dei nostri paeselli e un mondo dove tutti studiassero “non per diventare letterati o poeti ma per non essere più schiavi”.
Il mio amico era uno studente contadino: spalle larghe, riccioli bruni e abbronzatura atavica, maturata per generazioni al sole dei campi; studiava architettura ed era anche pittore. Sfidando la mentalità dell’ambiente, a volte salivo nel suo piccolo studio che sembrava un bosco fatto com’era, interamente da rami contorti. Lì, seduti sul tronco rovesciato di un pino che immaginavo ancora colmo di canti e fruscii di ali, ascoltavamo musica classica o sfogliavamo libri d’arte inebriandoci di bellezza e idealismo. La tensione verso cose spirituali ci esaltava, ci faceva sentire come sospesi tra il pavimento e l’aria, puri e lievi come angeli.
Ci incuriosivano soprattutto gli artisti bohèmiens: Sautine, Utrillo, Gauguin, Van Gogh, Modigliani… pittori infervorati di arte, droghe e follia che, insieme a modelle discinte e sensuali, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, dimoravano a Montmartre e Montparnasse, poveri quartieri parigini con i vicoli sordidi, le umide soffitte, il Moulin Rouge, i bistrot, i grand café. Erano le loro vite sregolate, intense e spesso tragiche a colpirci. Eravamo letteralmente conquistati da Modì, “dannato”, tubercolotico e alcolizzato; un’esistenza dominata da vizi e miseria che, unita alla morte prematura, ha fatto di lui una leggenda, un mito eterno, incarnazione di un ossimoro: in se stesso, infatti, era in grado di coniugare tradizione e avanguardia, passione e disperazione, vita e morte. Eravamo presi dal fascino misterioso delle sue figure dal viso allungato, con colli da cigno, bocche scolpite, piene di un’infinita tristezza, occhi a mandorla spesso vuoti, privi di sguardo (“Quando conoscerò la tua anima dipingerò i tuoi occhi” diceva). Per niente turbati o a disagio, contemplavamo i nudi della sua lunga serie di donne dalle pose appassionate e lascive che esibivano senza malizia le loro sinuose e abbondanti forme e non li trovavamo affatto osceni perché – filosofavamo – purificati dal tormento e dall’estasi dell’atto creativo che è scintilla del divino. Ci intrigavano i suoi amori: Elvire, Lucienne, Beatrice, Jeanne… amiche di una sera, semplici modelle, compagne di sbronza, conviventi turbolenti o dolcissime che rese immortali dipingendole con sentimento e con tutta la disperazione e la malinconia del suo animo…
Sono come il padrone di evangelica memoria che estrae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove e oggi l’occasione per ricordare questa cosa delicata e vecchia mi è stata offerta da una playlist casuale su Youtube e dall’inizio di questa canzone: “Vi parlo di un tempo/ che in questo momento/ non ha più valore/ vi parlo di Montmartre/ dei fiori di lillà/ sbocciati alle finestre/ della nostra stanza/ colma di speranza/ e di un grande amore/ Pittore vuole dire poco da mangiare/ ma lei non pianse mai…”
È “La bohème”, non il dramma lirico musicato da Puccini, ma la versione italiana di una composizione di Charles Aznavour. Ascoltandola provo le stesse emozioni di allora, perciò mi fermo qui e chiudo con un punto piccolo e prezioso come un diamante.☺
Non sono solo le rughe sottili che mi ricamano il viso, le righe sotto il collo, le mani con le macchie, i segnali che mi avvertono che la giovinezza è finita, ma l’ accorgermi che non c’è più quell’ansia viva di conoscere, di sapere che una volta mi animava.
Anni ‘60. Noi studenti, in un epoca in cui solo pochi proseguivano la scuola, ci consideravamo gli intellettuali tra la nostra gente e ci impegnavamo con tenacia ed orgoglio a costruire la nostra cultura, ipotizzando un riscatto sociale che trasformasse in meglio la realtà chiusa dei nostri paeselli e un mondo dove tutti studiassero “non per diventare letterati o poeti ma per non essere più schiavi”.
Il mio amico era uno studente contadino: spalle larghe, riccioli bruni e abbronzatura atavica, maturata per generazioni al sole dei campi; studiava architettura ed era anche pittore. Sfidando la mentalità dell’ambiente, a volte salivo nel suo piccolo studio che sembrava un bosco fatto com’era, interamente da rami contorti. Lì, seduti sul tronco rovesciato di un pino che immaginavo ancora colmo di canti e fruscii di ali, ascoltavamo musica classica o sfogliavamo libri d’arte inebriandoci di bellezza e idealismo. La tensione verso cose spirituali ci esaltava, ci faceva sentire come sospesi tra il pavimento e l’aria, puri e lievi come angeli.
Ci incuriosivano soprattutto gli artisti bohèmiens: Sautine, Utrillo, Gauguin, Van Gogh, Modigliani… pittori infervorati di arte, droghe e follia che, insieme a modelle discinte e sensuali, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, dimoravano a Montmartre e Montparnasse, poveri quartieri parigini con i vicoli sordidi, le umide soffitte, il Moulin Rouge, i bistrot, i grand café. Erano le loro vite sregolate, intense e spesso tragiche a colpirci. Eravamo letteralmente conquistati da Modì, “dannato”, tubercolotico e alcolizzato; un’esistenza dominata da vizi e miseria che, unita alla morte prematura, ha fatto di lui una leggenda, un mito eterno, incarnazione di un ossimoro: in se stesso, infatti, era in grado di coniugare tradizione e avanguardia, passione e disperazione, vita e morte. Eravamo presi dal fascino misterioso delle sue figure dal viso allungato, con colli da cigno, bocche scolpite, piene di un’infinita tristezza, occhi a mandorla spesso vuoti, privi di sguardo (“Quando conoscerò la tua anima dipingerò i tuoi occhi” diceva). Per niente turbati o a disagio, contemplavamo i nudi della sua lunga serie di donne dalle pose appassionate e lascive che esibivano senza malizia le loro sinuose e abbondanti forme e non li trovavamo affatto osceni perché – filosofavamo – purificati dal tormento e dall’estasi dell’atto creativo che è scintilla del divino. Ci intrigavano i suoi amori: Elvire, Lucienne, Beatrice, Jeanne… amiche di una sera, semplici modelle, compagne di sbronza, conviventi turbolenti o dolcissime che rese immortali dipingendole con sentimento e con tutta la disperazione e la malinconia del suo animo…
Sono come il padrone di evangelica memoria che estrae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove e oggi l’occasione per ricordare questa cosa delicata e vecchia mi è stata offerta da una playlist casuale su Youtube e dall’inizio di questa canzone: “Vi parlo di un tempo/ che in questo momento/ non ha più valore/ vi parlo di Montmartre/ dei fiori di lillà/ sbocciati alle finestre/ della nostra stanza/ colma di speranza/ e di un grande amore/ Pittore vuole dire poco da mangiare/ ma lei non pianse mai…”
È “La bohème”, non il dramma lirico musicato da Puccini, ma la versione italiana di una composizione di Charles Aznavour. Ascoltandola provo le stesse emozioni di allora, perciò mi fermo qui e chiudo con un punto piccolo e prezioso come un diamante.☺
Non sono solo le rughe sottili che mi ricamano il viso, le righe sotto il collo, le mani con le macchie, i segnali che mi avvertono che la giovinezza è finita, ma l’ accorgermi che non c’è più quell’ansia viva di conoscere, di sapere che una volta mi animava.
Non sono solo le rughe sottili che mi ricamano il viso, le righe sotto il collo, le mani con le macchie, i segnali che mi avvertono che la giovinezza è finita, ma l’ accorgermi che non c’è più quell’ansia viva di conoscere, di sapere che una volta mi animava.
Anni ‘60. Noi studenti, in un epoca in cui solo pochi proseguivano la scuola, ci consideravamo gli intellettuali tra la nostra gente e ci impegnavamo con tenacia ed orgoglio a costruire la nostra cultura, ipotizzando un riscatto sociale che trasformasse in meglio la realtà chiusa dei nostri paeselli e un mondo dove tutti studiassero “non per diventare letterati o poeti ma per non essere più schiavi”.
Il mio amico era uno studente contadino: spalle larghe, riccioli bruni e abbronzatura atavica, maturata per generazioni al sole dei campi; studiava architettura ed era anche pittore. Sfidando la mentalità dell’ambiente, a volte salivo nel suo piccolo studio che sembrava un bosco fatto com’era, interamente da rami contorti. Lì, seduti sul tronco rovesciato di un pino che immaginavo ancora colmo di canti e fruscii di ali, ascoltavamo musica classica o sfogliavamo libri d’arte inebriandoci di bellezza e idealismo. La tensione verso cose spirituali ci esaltava, ci faceva sentire come sospesi tra il pavimento e l’aria, puri e lievi come angeli.
Ci incuriosivano soprattutto gli artisti bohèmiens: Sautine, Utrillo, Gauguin, Van Gogh, Modigliani… pittori infervorati di arte, droghe e follia che, insieme a modelle discinte e sensuali, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, dimoravano a Montmartre e Montparnasse, poveri quartieri parigini con i vicoli sordidi, le umide soffitte, il Moulin Rouge, i bistrot, i grand café. Erano le loro vite sregolate, intense e spesso tragiche a colpirci. Eravamo letteralmente conquistati da Modì, “dannato”, tubercolotico e alcolizzato; un’esistenza dominata da vizi e miseria che, unita alla morte prematura, ha fatto di lui una leggenda, un mito eterno, incarnazione di un ossimoro: in se stesso, infatti, era in grado di coniugare tradizione e avanguardia, passione e disperazione, vita e morte. Eravamo presi dal fascino misterioso delle sue figure dal viso allungato, con colli da cigno, bocche scolpite, piene di un’infinita tristezza, occhi a mandorla spesso vuoti, privi di sguardo (“Quando conoscerò la tua anima dipingerò i tuoi occhi” diceva). Per niente turbati o a disagio, contemplavamo i nudi della sua lunga serie di donne dalle pose appassionate e lascive che esibivano senza malizia le loro sinuose e abbondanti forme e non li trovavamo affatto osceni perché – filosofavamo – purificati dal tormento e dall’estasi dell’atto creativo che è scintilla del divino. Ci intrigavano i suoi amori: Elvire, Lucienne, Beatrice, Jeanne… amiche di una sera, semplici modelle, compagne di sbronza, conviventi turbolenti o dolcissime che rese immortali dipingendole con sentimento e con tutta la disperazione e la malinconia del suo animo…
Sono come il padrone di evangelica memoria che estrae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove e oggi l’occasione per ricordare questa cosa delicata e vecchia mi è stata offerta da una playlist casuale su Youtube e dall’inizio di questa canzone: “Vi parlo di un tempo/ che in questo momento/ non ha più valore/ vi parlo di Montmartre/ dei fiori di lillà/ sbocciati alle finestre/ della nostra stanza/ colma di speranza/ e di un grande amore/ Pittore vuole dire poco da mangiare/ ma lei non pianse mai…”
È “La bohème”, non il dramma lirico musicato da Puccini, ma la versione italiana di una composizione di Charles Aznavour. Ascoltandola provo le stesse emozioni di allora, perciò mi fermo qui e chiudo con un punto piccolo e prezioso come un diamante.☺
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