la centoventotto rossa
31 Dicembre 2010 Share

la centoventotto rossa

 

C’è memoria ma non rimpianto in questo “quasi romanzo” di Elena Marinelli, la centoventotto rossa, affidato al flusso di coscienza di più voci narranti e ad una lingua non decantata, ma custode di una gelosa tenerezza nei confronti di ogni aspetto del reale.

Quadri di vita si susseguono, talvolta si sovrappongono, in una intricata rete di relazioni. Assumono maggiore consistenza quando rievocano ambienti, paesaggi, tipi umani, figure parentali, tutti costitutivi di un bagaglio di esperienze cui l’autrice molisana sembra essere ancora intimamente legata.

Se indefinito e indefinibile è il tempo della storia, quello del racconto sembra dipanarsi più attraverso la concatenazione di suggestioni che secondo tradizionali e sperimentati legami logici.

La scrittura procede per flashback e anticipazioni in una altalenante ed avvincente sovrapposizione di tempi, luoghi e personaggi. A tenere desta l’attenzione del lettore è anche la singolare strutturazione dei capitoli il cui incipit, isolato tipograficamente, ne diventa titolo.

Fatto salvo il coinvolgimento emotivo che ciascun lettore può intrattenere con il testo e la molteplicità dei rimandi offerti dalle esperienze narrate, sembra possibile rintracciare nel romanzo un misto di favola e di sortilegio: ad evocare momenti dell’infanzia, età di cui riaffiora e va a radicarsi nel presente quella particolare ingenuità che, se mai abbandonata, si dispone in età adulta a rendere conto di ciò che si è appreso vivendo. Clementina, la cui vicenda si allontana dallo stucchevole cliché di età di bambole e di giochi, ne diventa l’emblema.

Corrono attraverso gli oggetti le emozioni dei protagonisti: un invisibile filo rosso lega le bottiglie che fanno da involucro a delicatissime navi in miniatura, nella bottega del nonno, e il cassetto di Emma: un vetro trasparente, diafano, chiaro, luminoso, quanto mai fragile nella sua fisicità, ma anche metafora del desiderio e dell’urgenza di potersi rivelare immediatamente agli altri senza necessità di dover spendere troppe parole. “Il mio cassetto ha l’apertura di vetro, ci guardi dentro e ci sono io: il libro che sto leggendo, la musica che sto ascoltando…”.

Del resto non lo aveva detto anche Calvino che “marcati dal tuo possesso gli oggetti non hanno più l’aria di essere lì per caso, assumono un significato come parti di un discorso, come una memoria fatta di segnali e emblemi”?

C’è il disagio annidato nelle radici dell’immaginazione, tanto più inquietante quanto più si confronta con la grigia monotonia metropolitana, sperimentata da Osvaldo. Ancora un oggetto, il registratore, si sostituisce a lui nella ricerca e nella descrizione degli altri: i vezzi, le abitudini, forse anche i pensieri, sono ciò che egli maggiormente desidera conoscere delle persone che avvicina. All’apparecchio elettronico si affida per carpire la vita che lo circonda, per assaporarne l’armonia e la forza, per inseguire il sogno di un amore, per raggiungere un’ideale condizione di vita, o forse, ingenuamente, per nascondere la propria incapacità di vivere! “Vorrei una soluzione, un solvente, che diluisca il buco nero della crepa che mi porto appresso, che faccia sparire la verità, quella che vado cercando nelle storie: il momento preciso in cui qualcun altro finisce il discorso che io non riesco a finire”.

All’esistenza di ciascuno l’autrice si avvicina per coglierne la malìa e insieme le contraddizioni, per attribuire verità e realtà ad esistenze che semplicemente rivendicano la voglia di esserci.☺

Annamaria Mastropietro

annama.mastropietro@tiscali.it

 

eoc

eoc