La divinità di gesù
17 Settembre 2017
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La divinità di gesù

L’esperienza della risurrezione di Gesù ha prodotto effetti a breve e lungo termine nei discepoli delle prime generazioni cristiane: all’inizio essi hanno semplicemente compreso che la morte di Gesù non era la prova che lui non provenisse da Dio (come accusavano i suoi denigratori e come probabilmente Paolo pensava prima della sua conversione), ma il tentativo di opporsi da parte del Male e dei suoi seguaci alla missione di Gesù di rivelare il volto amorevole del Padre che si prende cura degli ultimi. La risurrezione è l’affermazione della vittoria di Dio, attraverso Gesù, sui suoi avversari. Ben presto però nella prima comunità cristiana si riflette sul fatto che Gesù non è semplicemente un uomo scelto da Dio come lo erano stati Abramo o Mosè o i profeti, ma aveva un legame molto più stretto con Lui, in qualche modo il Cristo, che ha preso il volto di Gesù di Nazaret era già da prima della creazione con il Padre.

Questi concetti non sono nuovi del cristianesimo, ma esistevano già nella riflessione giudaica, dove si rifletteva su alcune figure che appartenevano al mondo di Dio ma che avevano una dimensione personale. C’era una approfondita riflessione, ad esempio, sugli angeli (e sul loro corrispondente negativo, i demoni): esseri invisibili ma creati che servono Dio nel prendersi cura della creazione. Ma c’era anche una riflessione su alcune manifestazioni di Dio che non entrava in diretto contatto col mondo (qui si nota anche l’influsso di altri pensieri come quello greco), ma tramite entità mediatrici: la Sapienza, ad esempio, che viene descritta come una donna o una bambina che gioca con Dio quando Egli crea il mondo. Ma si riflette anche sulla Parola che in greco si dice Logos e che diventa il tramite personificato della creazione di Dio, come riflette ad esempio il più grande filosofo giudeo ellenista, Filone, contemporaneo di Gesù e di Paolo, ma abitante ad Alessandria d’Egitto. Infine c’è anche la riflessione, all’interno di movimenti che oggi dagli studiosi sono chiamati “apocalittici”, su una misteriosa figura chiamata “Figlio dell’Uomo” che è tutt’altro che un semplice uomo, perché esiste da prima della creazione ed è destinato a presiedere il giudizio finale.

Particolarmente questa figura è presente in modo determinante nei vangeli, quando Gesù parla di sé in prima persona (un modo idiomatico per dire “io”) ma che nei vangeli viene riletto alla luce delle riflessioni apocalittiche, il cui testo più importante è una sezione del libro apocrifo di Enoch, il cosiddetto “Libro delle Parabole”, scritto intorno all’era in cui Gesù è vissuto e che oggi abbiamo riscoperto, grazie alla Chiesa Etiopica che lo considera parte della sua Bibbia. L’influsso di questo tipo di pensiero cresce di pari passo con l’annuncio della risurrezione di Gesù che all’inizio è vista come una manifestazione del Dio d’Israele per dire qualcosa al suo popolo, ma che man mano la composizione dei cristiani tende maggiormente verso i non ebrei, diventa sempre più come la manifestazione del vero Dio, adorato da Israele, ma che si rivolge ora a tutti i popoli, abituati, a differenza di Israele, a vedere i loro dei presenti sulla scena del mondo in modo personale e visibile.

I primi teologi cristiani, tutti ebrei, quando la maggioranza dell’ebraismo considera un’eresia la fede in Gesù messia, attraverso le loro riflessioni cercano una nuova identità che permetta al cristianesimo di assumere una propria consapevolezza di fede non assumendo, ad esempio, le categorie “pagane” (come alcuni grandi studiosi del passato hanno sostenuto) ma indagando all’interno della grande tradizione giudaica per trovare i concetti per esprimere la loro fede in Gesù che non era visto come un uomo risuscitato, ma come il Figlio che Dio ha inviato per distruggere il male (forza oscura e potente perché proveniente dal mondo invisibile degli angeli) a cui gli uomini erano soggetti e da cui non avrebbero mai potuto liberarsi da soli (emblematica è la riflessione di Paolo sul peccato in Rm 7).

La riflessione sulla divinità di Gesù non è una trovata per fondare una religione nuova, come in modo sbrigativo e pregiudiziale si è spesso affermato, ma nasce tutta dentro alla riflessione giudaica, secondo la quale Dio non deve vincere semplicemente il male dovuto alle cattive azioni umane, ma un male metafisico, dovuto a creature molto più potenti dell’uomo (il diavolo e le sue schiere) e che richiedeva un intervento sovrumano che lavorasse dall’interno della creazione per neutralizzare questa forza oscura. Gesù, in questa prospettiva, quindi, non è semplicemente il Messia (concetto che ha connotazioni più politiche che religiose) ma il Figlio unico del Padre, che nella riflessione giudaica è associato con le immagini della Sapienza, della Parola e del Figlio dell’Uomo, oggetti, come abbiamo visto, ben conosciuti della riflessione giudaica. Di queste tre figure le ultime due sono presenti nel Nuovo Testamento: l’ultima nei 4 vangeli in genere, la seconda invece esclusivamente nel vangelo di Giovanni che è il racconto più teologizzante della vita di Gesù. Questo spiega la sua diversità dagli altri tre, più fedeli nel complesso ai fatti accaduti.

Il vangelo di Giovanni, come vedremo, non trascura i fatti, ma è più interessato degli altri a fondare un pensiero teologico che nasce dal giudaismo ma è consapevole che con il giudaismo sopravvissuto alla fine del Tempio, nel 70 d.C., non ha più molto in comune.☺

 

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