La falsa coscienza dell’occidente
19 Ottobre 2017
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La falsa coscienza dell’occidente

La tragedia umanitaria che si sta consumando sotto i nostri occhi, acuita dall’inarrestabilità dei processi migratori, è resa tanto più drammatica quanto più viene utilizzata a fini politici e sociali, in Italia e in Europa. La questione della fuga di milioni di uomini, donne, bambini dai loro paesi d’origine e l’approdo di molte migliaia di essi sul territorio europeo viene presentata come la conseguenza del sottosviluppo, legato ad economie non industrializzate, rurali, primitive, imputabili ad arretratezza, o a regimi dittatoriali, a guerre intestine e fratricide. Insomma imputabili a storie e responsabilità loro.

Viene messa in scena una sorta di concezione della storia, fondata su una dialettica contrappositiva tra civili/civilizzati/sviluppati/benestanti/capaci/meritevoli e incivili/sottosviluppati/incapaci/poveri/immeritevoli: l’assalto di questi ultimi alla nostra ricchezza, prosperità, sicurezza, civiltà si configurerebbe come una minaccia gravida di insidie e pericoli, causa della disoccupazione, della precarizzazione delle vite, della crisi economica, dell’imbarbarimento sociale.

Di questo si tratta in primo luogo: della costruzione di una narrazione che rende giustificabili i respingimenti collettivi, la chiusura delle frontiere, l’erezione di muri, la militarizzazione delle operazioni di ricerca, la collaborazione con regimi ripetutamente denunciati per violazione dei diritti umani, la detenzione in hotspot in stato di sospensione, quando non di brutale e violenta negazione dei diritti, come sta avvenendo in particolare nel territorio libico, posto sotto il controllo del sedicente governo di Al Serraj, con cui le autorità italiane, con la benedizione delle istituzioni europee, hanno stretto accordi.

L’uso politico dei migranti in secondo luogo serve a intorpidire lo scontro sociale, sino ad annacquare la lotta di classe, che si vorrebbe relegare nella pattumiera della storia, in quanto inattuale, e catalizzare la rabbia, il malcontento, l’insoddisfazione di tutti coloro che in Europa sono colpiti dalla crisi e conducono vite sempre più precarie e ricattabili, sul “nemico interno”, dato in pasto ad un’opinione pubblica resa inferocita. È un obiettivo ghiotto: per impedire la lotta tra servi e padroni, viene alimentata quella tra i servi.

In verità i processi migratori sono la resa dei conti che la storia restituisce ad “un’economia che uccide”: che ci piaccia o no siamo in presenza di processi epocali e strutturali, che sono il portato del plurisecolare governo imperiale del mondo, che, pur con varianti – colonialismo, imperialismo, decolonizzazione – si protrae dall’età moderna ai nostri giorni.

La deriva imperialistica, accompagnata dalla ristrutturazione dei processi produttivi, dall’accentramento della produzione nelle mani dei grandi monopoli, trust, cartelli, dalla fusione del capitale bancario con quello industriale, dall’esportazione di capitale, ha consentito che si compisse la più spregiudicata opera di conquista di popoli, terre, risorse, spartiti tra le grandi potenze europee, dal continente africano a quello asiatico, assoggettando milioni di esseri umani, schiavizzati, martoriati, privati dell’elementare diritto all’esistenza.

 

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