la presenza di immigrati   di Michele Tartaglia
4 Ottobre 2013 Share

la presenza di immigrati di Michele Tartaglia

 

Una delle idee portanti dell’Antico Testamento è che Israele sia il popolo eletto, messo a parte rispetto agli altri popoli per dedicarsi totalmente a servire Dio, anche a favore dell’umanità. Gli altri popoli sono visti o come fonte di pericolo o, più spesso, in cammino verso Dio al quale giungeranno alla fine dei tempi. Questo, invece, è visto come un tempo di separazione, per evitare di contaminare il popolo e distoglierlo dal servizio di Dio. Tuttavia all’interno della stessa bibbia ogni tanto si trovano dei testi o addirittura interi libri, anche se piccoli, in cui emerge un’altra idea: che cioè Israele può già accogliere lo straniero e la sua accoglienza produce benedizione.

Al di là dei testi legislativi, c’è un bellissimo racconto, il libro di Rut, che va in questa direzione. Si tratta di un piccolo romanzo che narra di una donna non ebrea, Rut, rimasta vedova di un uomo ebreo emigrato all’estero, che decide di seguire la suocera, Noemi, nel suo ritorno in Israele: “Dove andrai tu andrò anch’io e dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Rut 1,16); queste sono le parole magnifiche e disarmanti che Rut dice a Noemi che invece insiste perché si rifaccia una vita. Arrivata a Betlemme, luogo di origine del marito, si mette a servizio nei campi di un lontano parente, Booz, con il quale si sposerà dando origine alla stirpe da cui nascerà il re Davide.

Il racconto, al di là della bellezza narrativa, vuole comunicare un’idea proprio per arginare l’atteggiamento sospettoso del pensiero dominante nella società ebraica del post esilio che coltivava la diffidenza e la paura per gli stranieri: accogliere uno straniero e dargli la possibilità di contribuire a costruire il benessere della società in cui ormai vive, senza essere sfruttato, ma trattato con pari dignità, costituisce un investimento per il bene futuro della società stessa; contemporaneamente questo breve racconto ci ricorda che nessun popolo è totalmente “puro”, ma è frutto di commistioni continue e ciò che siamo oggi è il risultato dell’impegno e del sudore di tanti uomini e donne provenienti da luoghi diversi (pensiamo all’impero universale dei Romani fatto di popoli che si intrecciavano senza problemi o alla venuta dei cosiddetti barbari di cui tutti noi siamo discendenti). Anzi, la stessa genetica ci ricorda che, quanto più i gruppi umani sono isolati tanto più sono destinati a scomparire in quanto si perpetuano e amplificano gli “errori” dei geni che si tramandano.

Il libro di Rut è un inno all’ accoglienza dello straniero, un invito a renderlo fruitore dei medesimi diritti suggerendo l’impegno a prendersi cura perché celermente possa mettersi alla pari con chi già abita in quella terra. Durante il racconto Booz, padrone del campo, dice ai suoi servitori: “Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non fatele del male. Anzi, fate cadere apposta per lei spighe dai mannelli, lasciatele lì perché le raccolga e non sgridatela” (2, 15-16). Nell’attenzione di Booz si può leggere la metafora di come dovrebbe essere una società accogliente, che non teme gli stranieri ma che fa spazio nella convinzione che collaborando tutti insieme, avendo cura che si raggiungano le medesime possibilità, si può dare un futuro alle nostre società morenti. Rut e Booz nel racconto si sono sposati e hanno coltivato insieme quella terra che Booz non ha tenuto solo per sé, bensì ha messo a disposizione di Rut, rendendo vero il nome di quella città, Betlemme, che significa casa del pane (non per pochi privilegiati, ma per tutti). La capacità di accogliere di Booz ha reso possibile la realizzazione del futuro glorioso di Israele con la nascita della dinastia davidica e, per noi cristiani, la venuta di Gesù Cristo.

Il messaggio del libro invita a non aver paura di accogliere e condividere il lavoro che oggi sempre più ci riporta a valorizzare la terra come risorsa da coltivare per uscire fuori dalle minacce del mercato globale; e proprio la presenza di immigrati che non hanno dimenticato il contatto con la terra e la fatica per coltivarla diventa un incentivo per ritornare a ciò che siamo stati. Accogliendo, condividendo, coltivando, possiamo gettare le fondamenta per la rinascita di una società come quella sognata dai profeti che vedevano nel discendente di Davide colui che avrebbe instaurato la pace sulla terra, discendente non di un gruppo chiuso e malato ma della fusione di popoli e culture diverse e proprio per questo in grado di far scoppiare la pace.☺

mike.tartaglia@virgilio.it

 

 

 

 

 

 

 

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