la rosa dell’intellettuale
2 Luglio 2012 Share

la rosa dell’intellettuale

 

Brilla la società del secondo Ottocento, investita in pieno dalla violenta ondata di progresso scientifico: sfavillano i neon nei quartieri mondani delle neonate città industriali, le canzoni alla radio e il grattare della puntina dei grammofoni sui vinili riempiono l’atmosfera soffusa e satura di pregnante fumo di sigaro e esalazioni di brandy dei caffè, simbolo della società borghese, dove industriali e capitalisti si ritrovano per concludere affari, vestire all’ultima moda, stringersi la mano e fumare, magari sorseggiando un bicchiere di whisky e, di tanto in tanto, aggiustandosi il panciotto. Ma in un tavolo lontano, immerso nella penombra, una figura è china su un bicchierino mezzo vuoto di assenzio, con lo sguardo perso: su un quaderno i versi scarabocchiati prima del suo delirio. È l’intellettuale… La vittima dell’inarrestabile flusso di un progresso meramente materiale, che trascina con sé, in una spirale di svilimento e annullamento tutti i suoi “averi”: la sensibilità, la fantasia, le parole… La sua stessa aureola, retaggio di quella cultura amante del classico e dell’aulico così lontana. È triste vederlo ridotto così, “buttato alla crapula come il semplice mortale”  (Charles Baudelaire, Poesie e prose), caduto in un baratro oscuro di droghe, alcol e derive oniriche… L’altra faccia del progresso; lui, così diverso dalla massa omologata eppure così emarginato, abbandonato e inascoltato, non può che sentirsi un peso inutile in una società che ha l’utile e il capitale come valori fondamentali, timonieri del galeone dell’Ottocento che sta per affrontare gli abissi oceanici del Novecento; non riesce a farsi sentire nella miriade di echi vuoti e ridondanti che fanno solamente rumore. L’intellettuale viene ufficialmente licenziato dall’enorme cantiere mondiale: non può far altro che chiudersi nel suo mondo, dedicarsi, malinconicamente, al suo “hobby” e cantare una realtà “nuova”, fatta di simboli e dualismi; egli stesso è “luce e ombra, angelica farfalla o verme immondo… Un caduto cherubo dannato a errar sul mondo o un demone che sale, affaticando l’ale, verso un lontano ciel” (Arrigo Boito, Dualismo), e la sua esistenza “lenta che pare un secolo, breve che pare un’ora”, si trascina in una continua alienazione dai “normali”, con la faccia annerita dai fumi delle ciminiere o ubriachi di gin, che lo rende maledetto, genio incompreso.

Ma proprio in questa atmosfera di annullamento dello status di “eletto”, quasi la stanchezza di esprimersi, l’intellettuale affida alla sua arte un grido disperato, lacerante, quasi a dire Salvatemi!; salvarlo dai suoi vizi, salvare i suoi versi alla deriva in un mare di assenzio, salvare lui, ma anche tutti gli altri, operai e capitalisti, dalle vertigini di una meta raggiunta troppo alta sul baratro. Ahimè, per la società delle acciaierie, delle miniere e delle workhouses, così vicine ma così lontane l’una dall’altra, non sembra esserci riscontro per il lamento dell’intellettuale ferito, per romanzi e poesie, che sembrano stridere più dei cigolii, degli scoppi, degli ingranaggi della grande macchina industriale, divoratrice di risorse e di umanità.

Allora l’intellettuale seduto all’angolo del caffè si addormenta… E dalla rosa del vaso sul tavolo si stacca un petalo delicato, che volteggia lentamente nell’aria impregnata di fumo stantio prima di cadere nel bicchiere ormai vuoto, simbolo di una società svuotata di tutti i valori, regolata da una spietata razionalità calcolatrice; l’intellettuale “come tutte le più belle cose, è vissuto solo un giorno… Come le rose.” (Fabrizio De Andrè, La canzone di Marinella). ☺

gianlucavenditti90@hotmail.it

 

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