la straniera    di Loredana Alberti
30 Dicembre 2011 Share

la straniera di Loredana Alberti

 

Sepolta a lungo nel silenzio della storia Gertrud Kolmar, tedesca ebrea, scrive nella notte della Germania hitleriana e le sue carte, in parte perdute, rimangono a lungo disperse; la sua figura riflessa nella pagina, in una pluralità di immagini autoreferenziali, conserva la seducente ambiguità di una bellezza inconsueta, ancora in parte più lontana per la poca conoscenza che se ne ha.

Certamente Gertrud Kolmar è una voce importante del Novecento europeo: ma, come per lei in vita, la parola poetica è stata soprattutto il suo modo di essere, una straordinaria affermazione di sé, intessuta da una struggente richiesta di ascolto,

“Mi tieni completamente nelle tue mani” – scrive la poetessa rivolta al lettore. “Come quello di un piccolo uccello, batte il mio cuore / nel tuo pugno” totalmente lontana da ogni forma di ambizione mondana, così le sue carte sembrano segnate da un destino parallelo di incontri quasi privati. Stampate, la prima volta, per la cura affettuosa del padre, apprezzate da Walter Benjamin, il cugino con cui Gertrud discute in carte private di cultura e di poesia, le sue poesie raggiungono la scena del pubblico nel ’38, subito cancellate dalle leggi razziali; consegnate da quella data in poi a familiari emigrati, perché le conservassero, le sue scritture, sommessamente riproposte in Germania dopo la guerra, solo negli ultimi anni hanno iniziato ad acquisire visibilità e valore.

Lo conferma la loro storia italiana: dobbiamo, infatti, ad una raffinata ma piccola casa editrice, la Essedue Edizioni, l’incontro con Gertrud Kolmar.

La straniera (in Ritratto di donna, 1938) è una delle tante immagini di sé attraverso cui la Kolmar vive nel suo immaginario poetico. Straniera in casa, straniera nell’amore, straniera nella storia: l’esperienza Kolmar è esperienza di estraneità. Ma, reietta perché diversa, in Susanna (il suo ultimo testo a noi pervenuto, se si escludono le Lettere a Hilde) Gertrud è la giovane folle, di straordinaria bellezza, sola tra gli esseri umani, ma fusa e confusa tra gli elementi dell’universo: “Vivo” – scrive a Hilde il 10 ottobre 1939 – “rifugiandomi sempre più […] in ciò che è essenziale, negli ‘eventi dell’eternità’”. È un ritrarsi privo di rinuncia, un ritorno alle origini della vita dove l’estraneità, fatta propria, assume il valore del gioiello, “io sono il rospo / e porto il gioiello”, (// rospo), dove le parole, rinominando le cose, restituiscono alla vita i colori. In questo universo rigenerato in un silenzio che si oppone alla violenza della storia, Gertrud può dire di sé a Hilde: “Oggi, per fortuna, so […] che quello che ho ottenuto valeva quello che ho dovuto pagare” (13 settembre 1939). Ma è anche vero che la silenziosa presenza di Gertrud Kolmar nel panorama letterario di lingua tedesca aveva avuto una sua significativa eco proprio tra i poeti. E d’altra parte, per quanto possa apparire come voce isolata, tagliata fuori da una circolazione e da un dialogo poetico, l’opera della Kolmar lascia affiorare i segni di precise contiguità: con la poesia di Annette von Croste. Con la più vicina eredità espressionista, straniera, sempre altra, Gertrud Kolmar insiste sulla sua alterità. “io sono straniera”, così si apre L’ebrea, e nell’opposizione poetessa/scrittrice sceglie la via più isolata della poesia: “Sono una poetessa, questo lo so; ma non vorrei mai essere una scrittrice”. Eppure la sua poesia va oltre ogni senso di estraneità, di perdita e di morte, indicando un’immagine di sé, nonostante tutto, come “luce di cera per la veglia del secondo mondo”. Proprio questo sembra aver avvertito Bobrowski che chiudeva la sua poesia dilatando un verso della Kolmar e aprendolo ad un luogo senza tempo: “non moriremo, noi, / ci circonderanno le torri?”.☺

 ninive@aliceposta.it

 

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