La struttura schiumosa
Quanti modi esistono di parlare? Quante forme? Quante parole da scegliere o scartare, ammesso che serva una selezione o esclusione linguistica?
Nel 1963 Betty Friedan pubblicò La mistica della femminilità, il risultato di un’inchiesta condotta all’interno dello Smith College per comprendere quali fossero le ambizioni, le aspettative e le sensazioni delle sue coetanee rispetto alla vita presente e futura. Il libro, incentrato sul disagio psicologico e sociologico delle donne americane appartenenti alla classe media, conteneva una denuncia nata a partire dall’intuizione che esistesse una mancanza profonda, quella della parola come pratica di autocoscienza femminile: “C’è un problema che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso. È una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione. […] Per più di quindici anni non si è fatta parola di questo turbamento nelle rubriche, nei libri, negli articoli scritti dalle donne e per le donne.” . Betty rintracciò il primo tentativo d’espressione di tale inquietudine in una madre di quattro figli che a un caffè parlò con tranquilla disperazione del “proble- ma”, liquidando in un termine solo il tormento esistenziale causato dall’ insufficienza cronica delle vite condotte dalle donne tra il marito, i figli e la casa, nonché l’esigenza impellente di un’ autodeterminazione, di un riconoscimento a se stesse di personalità e identità, di pulsioni intellettuali e intime da esercitare nel quotidiano.
La questione sembrerebbe quasi pretestuosa, e tuttavia risultava e risulta ancora oggi sufficientemente complessa da occupare moltissime studiose senza che una soluzione ottenga il primato sulle altre possibili. Per fare un esempio, Marguerite Duras – e con lei Hélène Cixous, l’italiana Edda Melon e tante altre pensatrici – era assolutamente convinta che la differenza sessuale tra uomo e donna si trasponesse e si dovesse palesare anche nella scrittura come “differenza al lavoro, differenza nella lingua, passaggio continuo dalla voce allo scritto, dal corpo al testo, mobilità soggettiva, attraversamento continuo”, poiché il luogo da cui la parola si attinge, quel luogo che Monica Farnetti chiamerebbe “la struttura schiumosa della nostra psiche”, è differente per uomini e donne.
È stata spontaneamente elaborata e praticata con le medesime implicazioni anche al di fuori dell’Occidente, e cioè nel contesto della poesia araba femminile, dove non esistendo una forma ritenuta adeguata a esprimere il sentire, è stata inventata. Quando l’iraniana Nazik al Mala’ika pubblicò Schegge e Cenere, era il 1949. Fino ad allora, eccetto qualche sporadico caso, la forma della poesia araba era rimasta invariata dai suoi albori, obbligatoriamente assoggettata all’autorità di un rigido schema metrico che prevedeva che tutte le parole finali dei versi rimassero tra loro e che tutti i versi fossero divisi in due emistichi da una cesura centrale. Poi Nazik al Mala’ika, nel 1946, pubblicò “Il colera”, la “prima poesia araba in versi sciolti”, e tre anni dopo la prima raccolta poetica in versi sciolti, preceduta da una lunga prefazione che esplicava la necessità di una parola libera su cui potesse costituirsi e costruirsi la libertà. Qualche esempio di tale operazione sono l’ormai celeberrimo ed emblematico
Perché abbiamo paura delle parole
Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa,
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote,
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?
Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e di vita?
Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,
e caldi calici.
Perché abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere hanno estratto il tepore della speranza da due labbra,
e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi
inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote, suoni
che, assopiti nella loro eco, colorano una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.
Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.
Su, versaci due calici di parole.
Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole,
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo per la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.
Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
chi pregheremo… se non le parole?
La più intimistica e inquieta “Io”:
La notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare
Dovremmo ricordare tutto ciò, versare, fare rivoluzioni di fronte al futuro (?) parlamento per ridere sulle due donne scelte, per ridere di tutte o quasi le politiche scelte nel tempo che nella maggior parte sono la fotocopia nel linguaggio e nel potere, degli uomini: solo conservando la schiuma della differenza potremo iniziare, noi donne, a parlare e costruire un mondo: diverso dalla torre di babele maschile.☺