l’aquila 3:32, anno primo
27 Aprile 2010 Share

l’aquila 3:32, anno primo

 

A due giorni dalla Pasqua di resurrezione, in una notte fredda, fonda e silente, venticinquemila fiaccole illuminano le strade sinistre e spettrali della città colpita da un terribile terremoto esattamente un anno fa. Parole poche o sottovoce, qua e là solo qualche colpo di tosse. La manifestazione è carica di un dolore, di un rispetto profondo ed autentico per le 308 vittime. Dentro di me un mare vorticoso di sentimenti sul perché di una tragedia evitabile, per lo meno, nelle proporzioni. Solo le foto delle giovani vittime campeggiano con i loro sorrisi memori di momenti di vita e di gioia. Hai voglia di dire, di denunciare il dominio che crea passività, di una ricostruzione a misura di oligarchie economiche e di èlite politiche, ma il dolore, la commozione ti prende la gola e non puoi fare altro che camminare lentamente e mantenere lo striscione su cui c’è scritto “LA UNICA LUCHA QUE SE PIERDE, ES LA QUE SE ABANDONA": celebre espressione ripresa dalla marcia di resistenza delle Madri di Piazza di Maggio che si traduce anche “l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona”.

Avanziamo compatti, uniti, insieme ad una ventina di giovani dell’Istituto Superiore Marconi di Penne che si sono occupati de L’Aquila anche durante le ore di religione. Presenza strabordante di giovani che partecipano, accompagnano, ricordano, piangono. Ed è una immagine del tutto inedita di questa gioventù spesso banalizzata e mai abbastanza valorizzata per vitalità critica ed innovativa. Alla fine il ricordo delle 308 vittime con l’elenco dei nomi ed i rintocchi interminabili della campana. Stanchi ed infreddoliti in piazza Duomo, con lo striscione “Riprendiamoci la nostra città”, lo sguardo fiero, sofferto e le lacrime dei parenti.

Un solo dolore superava quello partecipato per i parenti delle vittime, quello per una Chiesa, nei suoi rappresentanti, assente, che ha scelto di stare, pubblicamente, dalla parte sbagliata: quella del potere.

Era lì il Cristo, in mezzo a quelle fiaccole silenziose sostenute da volti giovani con occhi profondi e carichi di attesa. Sofferente tra i sofferenti, vittima tra le vittime. Qua e là alcune suorine e monaci da soli, quasi orfani, ma vicini, anzi dentro il dolore. Chiesa, abbandona l’onnipotenza e prendi la croce della onnidebolezza.

In quella sofferta e vitale fiaccolata, c’era un popolo che non vuole dimenticare il dolore e che da quelle 308 croci vuole risorgere e lottare per la giustizia, per la verità, per il futuro. Quelle vittime non saranno morte invano, ma saranno seme di una nuova umanità.

A quei padri, al posto dei quali avrei potuto esservi io, dedico le parole di un celebre brano di Eric Clapton, Tears in Heaven (lacrime in paradiso):

devo essere forte e andare avanti,

perché so che non posso stare qui in Paradiso

il tempo può buttarti giù

il tempo può piegarti le ginocchia.

Il tempo può spezzarti il cuore,

hai implorato clemenza, implorato clemenza…

oltre la porta c’è pace, sono sicuro,

e so che non ci saranno più lacrime in paradiso.

 

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