l’articolo 18          di Marianna Salemme – Pietro D’Adamo
28 Febbraio 2012 Share

l’articolo 18 di Marianna Salemme – Pietro D’Adamo

 

Non era un bel numero all'Università, perlomeno per chi aspirava a traguardi importanti; per qualcuno è il numero dell'autobus che prende tutte le mattine; per alcuni il numero emesso da un distributore per la fila al supermercato o alle poste o in qualunque altro ufficio. Quante volte ci passa tra le mani, nella vita di tutti i giorni, il numero 18.

Ma per chi si occupa di diritto del lavoro – avvocati, giudici, professori universitari, sindacalisti e, quali beneficiari del diritto, i lavoratori – questo numero corrisponde all'art. 18 della Legge 300 del 1970 (“Statuto dei lavoratori”), che prevede, in caso di licenziamento invalido nelle aziende con più di quindici dipendenti, la reintegrazione nel posto di lavoro e un'indennità risarcitoria commisurata alle retribuzioni maturate dal licenziamento sino all'effettiva reintegrazione nella misura minima di cinque mensilità, con la possibilità di esercitare il diritto di opzione di altre quindici mensilità in caso di rifiuto della reintegra.

Ebbene, sta passando in televisione e sugli organi di stampa (che, come al solito nel nostro Paese, anziché essere i guardiani della democrazia, sono asserviti al potente di turno, diffondendone la volontà e il pensiero) un messaggio errato e fuorviante per i cittadini: l'articolo 18 equivale a posto fisso, concetto considerato antico, non più attuale e adeguato ai mutamenti economici e, per questo, un ostacolo allo sviluppo, quasi una sorta di cancro da estirpare.

Attenzione! Rileggete la norma e vi renderete conto che vogliono trarvi in inganno: hanno ottenuto il risultato di convincere – o almeno questo appare – alcuni addetti ai lavori, giuslavoristi o presunti tali, che spacciano la suddetta conclusione per una tesi percorribile e giusta. In verità, chi conosce realmente la materia, la storia e la genesi della norma di cui si sta parlando, afferma quanto segue.

L'articolo 18 non scatta automaticamente in caso di licenziamento: la tutela sopra descritta scatta solo in caso di licenziamento illegittimo, ossia ingiustificato. Difatti, solo nel caso che il licenziamento sia privo di giusta causa o di giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, si applica la norma in esame. Cioè essa rappresenta una difesa contro una violazione, non l'esclusione del potere di licenziare un lavoratore gravemente inadempiente o in esubero rispetto alle capacità economiche di un'azienda in crisi. Or dunque, a meno di non voler agevolare le imprese “furbette” o in mala fede, l'articolo 18 non va eliminato né modificato, poiché perfetto nella sua formulazione e nella sua applicazione pratica. Anche perché – si badi bene – l'accertamento della legittimità del licenziamento è opera di un giudice, che emette una sentenza all'esito di un articolato processo. Forse questo governo – anche questo!? – non si fida dei giudici?

Dalle prime indiscrezioni emerge che la proposta governativa vorrebbe sostituire l'obbligo di reintegrazione con un obbligo di indennizzo: il lavoratore, anche se illegittimamente licenziato, sarà indennizzato, perdendo definitivamente il posto di lavoro, non importa se licenziato ingiustamente, magari perché aveva i capelli di uno strano colore o perché era antipatico al direttore.

La tematica si interseca con quella del cosiddetto contratto unico: sono al vaglio del governo due proposte, quella nota come proposta “Boeri-Garibaldi” e quella della quaglia da tempo saltata sul carro dei forti, Ichino. In entrambi i casi il motivo ricorrente è quello della eliminazione delle diverse tipologie di contratto di lavoro attraverso la previsione di un unico contratto con un periodo di prova fino a  tre anni durante i quali il lavoratore può essere liberamente licenziato.

In particolare, in linea di massima, l’idea del governo ricalca la proposta degli economisti Boeri e Garibaldi: un Contratto unico di ingresso (CUI) al lavoro che dopo tre anni si trasforma automaticamente in un classico indeterminato, articolo 18 compreso. Se il lavoratore viene licenziato nei primi 36 mesi avrà diritto ad un indennizzo economico, non ancora ben definito, ma non alla reintegra. Non si comprende, altresì, chi si sobbarcherà tale indennizzo: l'impresa, lo Stato, oppure sia l'impresa che lo Stato. E poi la medesima proposta allude ad un fantomatico reddito di disoccupazione, anch'esso non meglio specificato. Dalla sua, su tale punto, la proposta “Ichino” prevede che dopo il licenziamento segue un periodo di due-tre anni, di cui il primo pagato con l'80% della retribuzione a carico in parte dello Stato e in parte dell'impresa, il secondo con il 70% della retribuzione a carico totale dell'impresa, ma con l'obbligo per il lavoratore di partecipare a corsi di formazione ai fini della ricollocazione, pagati dai contribuenti ma con lucro di aziende private. Ma dov'è il risparmio economico per lo Stato e le imprese nel dover pagare in tal modo una persona senza farla lavorare?

Inoltre non va dimenticato che l'articolo 18 trova applicazione anche nella aziende con meno di quindici dipendenti in caso di licenziamento discriminatorio, ossia intimato per motivi di razza, di sesso, di lingua, affiliazione politica o sindacale o per la partecipazione ad uno sciopero, e questo troppo spesso passa sotto silenzio.

Orbene, il presente articolo non è un'invocazione, né una difesa meramente ideologica e ad oltranza di una norma, ma si propone, senza pretese di esaustività, di spiegare che le ragioni dell'attualità e validità del “18” sono di natura tecnica e sostanziale: in questa sede gli scriventi si sono spogliati di ogni altra veste che non sia la toga di avvocati giuslavoristi, con un qualcosa in più, la conoscenza dei valori civili e culturali e delle lotte, combattute anche al prezzo della vita, che hanno condotto alla nascita dell'articolo 18.

Si ritiene che questo governo, nato come governo tecnico e accreditatosi come avulso dalle logiche e dai capricci della politica, stia assumendo pericolosamente la fisionomia di un governo politico con l'aggravante del possesso di una sorta di patente di legittimità e opportunità di ogni suo provvedimento, anche quando viene adottato in modo pressoché dittatoriale – nessuno fiata, i partiti sembrano deceduti – in nome della crisi e di istanze provenienti dall'Europa, Germania capoclasse.

Da tutto quanto detto è facile desumere che la ricetta salva-Italia non ha bisogno dell'abrogazione o modifica dell'art. 18: hanno già demolito gran parte dei baluardi dell'ordinamento giuslavoristico, ciò in piena continuità con il Governo precedente. Rimane solo l'articolo 18, che continua ad avere, per quanto sopra esposto, la sua ragion d'essere e toccarlo potrebbe risvegliare antiche reazioni in un popolo affamato.

Lasciarlo stare potrebbe essere, invece, un atto d'amore verso la società, verso la gente, soprattutto in questo momento così duro da sopportare.☺

 marx73@virgilio.it

 

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