l’avarizia
20 Febbraio 2010 Share

l’avarizia

Lungo è l’elenco dei comportamenti razzisti di una parte cospicua della popolazione italiana.

A Coccaglio (Brescia) con Withe Chrismas (= Bianco Natale) si vuole coprire con il colore della religiosità e con la gioia della festa del Natale un’operazione tipicamente razzista che si esprime con la delazione dell’“altro” come nemico o avversario socialmente pericoloso, che potrebbe mettere a rischio la quotidianità borghese di una comunità solo con la sua presenza indigesta.

A San Martino dell’Argine (Mantova) è la stessa cosa, per cui all’ossessione per il migrante si accompagna l’antagonismo razzista contro di lui.

A Milano, infine, la regione Lombardia ha approvato un progetto di “vigilanza del quartiere” sostenuto dalla Lega nord e dal Pdl perché siano gli stessi cittadini residenti a segnalare ai vigili o alle autorità comunali “auto e persone sospette”.

Siamo, quindi, all’aperta e dichiarata delazione civile, considerata come uno strumento comunemente condiviso di emarginazione e di espulsione dalla comunità locale di quanti potrebbero molestare la tranquilla vita dell’uomo qualunque.

Dove si annida tale pregiudizio, il considerare cioè il migrante come individuo pericoloso per la collettività? Tale concezione preclusiva dell’immigrato ci appare molto diffusa non solo presso i ceti abbienti, che in genere sono legati ad una visione utilitaristica della vita e della storia, ma anche presso la classe lavoratrice da un po’ di tempo subalterna alla logica neoliberista. Rimanendo però su un terreno squisitamente razionale e volendo cercare una spiegazione di tale atteggiamento culturale delle classi lavoratrici, non possiamo fare a meno di ricordare il comportamento esemplare di Rosso Malpelo nei confronti di Ranocchio, personaggi dell’omonima novella verghiana. 

Il povero ragazzo – Rosso -, oppresso e straziato dalle miserevoli condizioni di lavoro in miniera, se la prende con chi sta peggio di lui, Ranocchio, appunto. Colui che è oppresso dai ceppi della logica capitalistica se la prende con chi occupa una posizione subalterna rispetto alla propria e non con il padrone (come si diceva una volta!) la cui logica di sfruttamento viene applicata sul lavoratore dipendente con una indifferenza, che fa a pugni con la logica dei diritti sociali e politici in questo modo calpestati e negati (le morti quotidiane sul lavoro dimostrano quanto in maniera molto palese siano disattese le norme tutorie della salute e della dignità del lavoratore; i contratti a progetto, poi, sottolineano la prassi di questa forma di rapporto lavorativo precario che ha sostituito quello che lo Statuto dei lavoratori aveva (ed ha) sancito con lotte antagonistiche negli anni Settanta, indicando nella figura del/la lavoratore/trice una persona con la sua dignità da valorizzare e salvaguardare ad un tempo).

E qui sta il vero dramma della società contemporanea, cioè l’aver essa persa la bussola dell’orientamento solidaristico e della condivisione di classe che potrebbero determinare una logica naturale delle alleanze fra i soggetti sfruttati.

Lo sfruttato (individuo-merce),  cioè il lavoratore dipendente, se la prende con chi sta peggio e lo emargina, lo traumatizza, lo perseguita con norme  indicate come “sicuritarie” ma certamente razziste, come quelle del pacchetto sicurezza – luglio 2009 -, autentico obbrobrio per la cultura giurisprudenziale italiana nota nel mondo per essere una delle migliori espressioni della civiltà giuridica occidentale.

E noi in ciò cosa verifichiamo? Indubbiamente, la pretesa superiorità del bianco, dell’italiano, dell’occidentale ricco nei confronti di quanti bussano alla porta della nostra civiltà e del nostro territorio metropolitano, la cui dolorosa esperienza si fonda sulla povertà estrema e sulla rassegnazione ontologica che spinge l’oppresso a sognare l’osso spolpato, che viene fatto cadere dalla mensa stracolma dell’epulone,  sordo, superficiale, avaro oltre ogni livello di ragionevolezza.

Ora, proprio alla luce di quanto diciamo, l’odio per gli immigrati, sinonimo di razzismo, è espressione di una cultura che purtroppo sembra appartenere anche al popolo. Molteplici appaiono le interpretazioni di tale deriva delle idee e, purtroppo, dei comportamenti; ma quella che appare più contigua ai nostri convincimenti è l’intima persuasione che sono pressoché sparite le forme di solidarietà da tempo immemorabile appartenenti ai ceti popolari e alla classe lavoratrice – operaia; ora quello che appare un comune denominatore è l’odio per l’immigrato che costui con la sua presenza fisica provoca. Ma intanto abbiamo paura di questi autentici fantasmi, perché ci siamo arresi alla logica utilitaristica del capitalismo che fa dell’individualismo, della concezione privatistica del proprio orticello una autentica species ideologica sulla cui base noi ci rapportiamo egoisticamente con gli altri. Se quello che appartiene a noi, se ciò che noi pensiamo è superiore a quanto gli altri suppongono, facciamo presto a considerare gli altri come nemici, come avversari, come soggetti ostili di cui ci dobbiamo disfare.

Pertanto, ci liberiamo degli immigrati, individui che noi non vogliamo che si muovano e che vivano al nostro fianco. Alla solidarietà di classe, dunque, si sostituisce un altro elemento di coesione che è appunto l’odio per il diverso, l’immigrato regolare o clandestino che sia. All’odio segue il razzismo, che in questo contesto potremmo definire come una forma di rancore sordo nei confronti del debole, e questo sentimento noi tranquillamente lo inseriamo nel numero dei sette peccati capitali.

L’avarizia, di per sé, non è soltanto l’espressione di una condotta indecente, così definibile alla fonte di una visione cristiana della vita; l’avarizia è anche privare gli altri di quanto essi hanno bisogno per sopravvivere; è il miserevole comportamento che spinge a sfruttare gli altri, negando loro l’essenziale per la sopravvivenza.

Per gli avari non c’è un eden; a loro la storia consegna nelle mani la bolla miserevole dell’abiura dell’identità umana… ☺

bar.novelli@micso.ne

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