lavoro come sofferenza
1 Marzo 2010 Share

lavoro come sofferenza

 

L’Italia contemporanea ci presenta un mondo del lavoro contrassegnato da disoccupazione, lavoro nero, bassi salari, flessibilità selvaggia, utilizzo di minori e precarietà diffusa. Per ritrovare una sofferenza di tale portata bisogna guardare all’Italia degli anni ’50, ma soprattutto occorre ascoltare un testimone privilegiato come don Milani che avvertì in maniera acuta le ricadute politiche, morali e spirituali determinate dal problema della disoccupazione e dallo sfruttamento delle maestranze.

Per don Milani il rispetto dei diritti dei lavoratori stava alla base della tutela della dignità umana. Un riconoscimento che doveva iniziare già all’atto dell’assunzione: “Quanti preti si sono fermati a meditare sul problema dell’assunzione al lavoro? Ben pochi pare. Perché a tutti gli usci si trova qualche prete che va a raccomandare disoccupati (…). Quest’ opera è cattiva e perfino illegale. C’è gli uffici di collocamento che devono decidere chi ha più urgenza e diritto al lavoro” (L. Milani, Esperienze Pastorali).

Nella società degli anni ‘50, ove i posti di lavoro scarseggiavano e il reddito delle famiglie era estremamente basso, gli stessi minori erano soggetti ad un brutale sfruttamento. Le autorità, da parte loro, non mostravano alcuna volontà di porre fine a tale scandalo: “Mauro entrò a lavorare a 12 anni (…). L’anno dopo il babbo restò disoccupato e il peso della famiglia passò sopra le spalle del ragazzo. Ma Mauro non fece smorfie da signorino: chiese due turni di 12 ore e li ottenne. A 13 anni 12 ore. Una settimana di notte e una di giorno (…). Lavorare a 12 anni vuol dire rovinarsi la salute. Non andare a scuola (…). Lavorare 12 ore a turni vuol dire sottoporsi il doppio degli altri agli infortuni (…). Mauro non era assicurato (…). Chi lavora senza libretto non compare negli incartamenti dei grandi (…). Gente che non esiste, eppure vive e soffre (…). E tutto questo senza assicurazione, senza contratto, senza difesa (…). A furia di far 12 ore, s’era ridotto da far spavento. Poi gli si ammalò il babbo. Fu in quei giorni che sentii dire che il Baffi assume (…). Dal Baffi si lavora con contratto a termine. Ognuno firma per due mesi e rinnova alla scadenza per altri due e così via (…). Dodici ore di notte e dodici ore di giorno son comuni dal Baffi. Ma le ragazze per mesi interi han fatto 16 ore (…). E non ho ancora detto quello che sta a cuore a me. La messa che il Baffi fa perdere ai miei figlioli ogni domenica. L’umiliazione che impone loro di essere bestia 7 giorni su 7 e non 6 come sarebbe scritto (oltre che nella legge di Dio anche nella Costituzione (…). Un giorno mi è parso troppo e sono andato da un magistrato che vuol bene ai poveri e al buon dio. M’ha detto: “Ci penso io”. Due giorni dopo (…) c’è piombato Luigino in piena scuola urlando: “L’hanno beccato! Solo nel mio reparto s’era in 7 di 14 e 15 anni”.

Qualche giorno più tardi il magistrato scrisse a don Milani: “Ho davanti il rapporto dell’ispettora- to: la segnalazione di irregolarità al lanificio Baffi era destituita d’ogni fondamento. In un’accurata ispezione non abbiamo potuto riscontrare la più piccola infrazione” (L. Milani, Esperienze Pastorali). L’amarezza del sacerdote fu profonda: “Forse hanno accettato la bustarella, forse hanno ricevuto dall’alto l’ordine di non sdegnare troppo gli industriali perché chiudano. Il potere politico è in mano ai ricchi. Il potere della legge si infrange di fronte al potere economico” (L. Milani, Esperienze Pastorali). La rabbia più grande nasceva però in lui dalla consapevolezza che il partito cattolico, che il priore stesso aveva sostenuto nelle elezioni del 1948, tendeva a legarsi sempre più ai ceti privilegiati. Una situazione del genere rischiava inoltre di far allontanare i giovani da una chiesa che si mostrava troppo lontana dai problemi sociali: “Per ora Mauro è ancora qui, accanto a me. Me lo sono potuto tenere sempre vicino, parlargli di Dio e di purezza, nutrirlo di assoluzioni e comunioni. Ma tutto questo solo perché è giovane. Diciassette anni son pochi. Ma quando se n’è viste tante cominciano a pesare quanto i trenta d’un signorino. Domani quando ne avrà 18 o 19 sarà come se ne avesse 40. Odierà tutto e tutti e me suo prete, e il Papa e il Cristo nostro signore (…). Se mi chiede ragione di quel che fa il Baffi, di quel che fa il governo cattolico, che gli posso dire? (…). Al governo gli ho dato il voto. Ho proibito dall’altare di dare il voto ad altri. Ho proibito di leggere i giornali che lo criticano. E il governo che io ho così sorretto, non platonicamente, ma in concreto, il governo s’è lasciato legare mani e piedi dal Baffi e da quelli come lui (…). È troppo chiaro che il governo non ha osato nulla che fosse segno di una fede nel Dio che aiuta i giusti, nel Dio che è provvidenza per chi osa amarlo, per chi osa abbandonarsi filialmente nelle sue paterne mani (…). Per un prete quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano i sacramenti, camera, senato, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’esser derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri”. ☺

a.miccoli@cgilmolise.it

 

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