l’eterno ritorno
14 Aprile 2010 Share

l’eterno ritorno

 

La narrazione mitologica esclude il tempo. Si limita a proporre forme concrete dell’agire e del comportamento umano, ma queste sono come relegate in un paradiso di archetipi. La categoria temporale, lontano dal caratterizzarsi come storia e come divenire, tende a perpetuarsi come eterno ritorno.

Non attribuendo importanza al tempo, si vive in un perenne presente che non registra il susseguirsi degli avvenimenti, ma bada a costruire una socialità ideale, armonica, separata dalla realtà.

Solo sessanta anni fa l’antropologo rumeno Mircea Eliade dimostrava nel saggio Il mito dell’eterno ritorno come il racconto mitologico e i riti dei popoli arcaici rimandino ad azioni, che diventano reali soltanto nella misura in cui imitano o ripetono un archetipo; la realtà si esprime così esclusivamente in virtù di ripetizione: tutto ciò che non ha un modello esemplare è privo di significato.

Rifiutata la prospettiva della “durata”, della "storia", coloro che riproducono il comportamento esemplare si trovano trasportati nell'epoca mitica. Da questo punto di vista la storia dell’uomo tende ad essere considerata come l’avvicendarsi di miti sempre risorgenti.

Il rischio insito in una tale concezione della storia è soprattutto quello di non riconoscere il primato del futuro e di rifiutare l’interpretazione che considera il tempo dell’esistenza come possibilità o progettazione.

Se dunque applicassimo alla storia del secolo appena trascorso la concezione dell’eterno ritorno il significato di ciò che si verificò nel ’68 risulterebbe uguale all’immagine, cara ad Eliade, del moto dell’onda sulla risacca, bisognosa d’infrangersi contro questa e costretta ad allontanarsene per appartenere di nuovo al mare.

Il ’68 si configurò invece come una mareggiata impetuosa: esperienza inedita ed eccitante, la trasgressione che riesce a mettere in questione l’ordine e il rituale di un sistema che sembrava intangibile, il tentativo di ribadire il primato dell’umanità e della verità, in termini anzitutto di giustizia che realizza la libertà, e di pace costruita coi mezzi della pace, il richiamo forte alla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica; la fiducia incrollabile nella forza propulsiva di un rinnovato impegno civile che in tutto il pianeta interpretò la richiesta pressante e determinata di veder riconosciuta la dignità di ciascun uomo.

A distanza di quarant’anni la società in cui ci troviamo a vivere non è esattamente quella che i protagonisti di quella stagione avrebbero desiderato. Si impegnarono allora per un’umanità centrata sui valori della creatività e della partecipazione, si impegnarono affinché l'anarchia individuale venisse progressivamente colmata da iniziative di associazione, da sistemi educativi che riducessero il divario fra le potenzialità creative dell'essere umano e la sua concreta espressione. Una prorompente vitalità e insieme il coraggio della sfida percorreva le tante persone che in piazza reclamavano uno sviluppo completo, vero e fecondo, pretendendo l’abbandono del conformismo. In quel mondo in cui persino la guerra era tornata a farla da padrona, i movimenti pacifisti sembrarono in grado di scalzare le nuove forme messe in atto per legittimare la violenza.

Può forse ritenersi conclusa l’esperienza di quegli anni? Può considerarsi soltanto un sogno la fede di una generazione che ha avuto il coraggio di rivendicare il bisogno assoluto di libertà, sfidando una società borghese irrigidita nella ricerca della solidità e della sicurezza?

Si condanna all’inazione chi pensa al ’68 come ad un evento isolato senza un prima e senza un dopo, rifiutando quell’idea di storia nella quale passato e presente sono in continuo dialogo e l’uno si getta nell’altro, scompaginandone l’ordine.

Un’esortazione vogliamo raccogliere dalle voci dei protagonisti di quegli anni, a fronte della disgregazione che oggi sperimentiamo: Non arrenderti mai, cerca sempre, osa nuove strade, provaci!  ☺

annama.mastropietro@tiscali.it

 

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