Lettera a una dottoressa
10 Settembre 2020
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Lettera a una dottoressa

Cara dottoressa e cari tutti voi che mi avete ritenuto idoneo al “trattamento” che invece, dopo oltre un anno, a causa dell’ edema alla testa procuratomi, mi ha lasciato grossi problemi descritti in due articoli precedenti sempre su la fonte.

Il 27 agosto dello scorso anno è stato il giorno del nostro ultimo incontro a L’Aquila dopo l’ennesima risonanza magnetica; l’ho cercata e dopo diversi tentativi l’ho trovata. Avevo bisogno di nutrire speranza, perché all’inizio lei mi rassicurava che in due giorni sarei tornato a casa in piena forma; invece, poi, sono trascorse due settimane; a seguire due mesi; infine, sono arrivato a Natale 2019, dopo sei mesi, durante i quali ho incontrato e frequentato amici e parenti, ai quali ho raccontato della mia disavventura all’ospedale civile de L’Aquila… L’ho guardata, ero un poco arrabbiato, perché ho capito che dovevo smettere di sperare. Da allora non ci siamo sentiti, né rivisti più! Il suo gioco, almeno nei miei confronti era finito. Mai un saluto, una telefonata, una curiosità da parte sua sullo stato della mia salute… Il trattamento era finito, era andato male, era importante trovare il modo di sbarazzarsi di una persona, oramai diventata scomoda, alla quale era stato assicurato “nessun pericolo… andrà tutto bene!”.

Ora è trascorso più di un anno dal giorno del trattamento (3 luglio 2019). Come si può essere così disumani nel cercare cavie e, dopo aver fatto su di esse un esperimento, non riuscito, abbandonarle e continuare a farsi pubblicità allo scopo di cercare altre persone ignare di quello che potrebbero subire! Una piccola attenzione poteva rendere umani e, forse, giustificabili anche possibili errori! Ma forse lei era troppo presa dalla prospettiva della possibile riuscita dell’esperimento definito impropriamente “trattamento non invasivo”.

Nel secondo articolo ho scritto che avevo conosciuto una persona che si era sottoposta al trattamento, per altro non riuscito, e pertanto molto scossa per questa ragione. Un’altra persona, visti i risultati su di me, ha praticamente rinunciato all’intervento a L’ Aquila. G.D.I. non si lamenta soltanto per il trattamento non andato bene ma si affligge perché nella sua cartella clinica ha trovato scritto questa frase “il paziente chiede di interrompere il trattamento”, e questo dopo quattro ore. Bugiardo lui o falso chi ha scritto in cartella clinica la frase riportata?

“Ha firmato!” Ditemi quale paziente, prima di un intervento, ha la possibilità di analizzare lucidamente e di sottoscrivere consapevolmente ciò che sta per subire?

Dottoressa, le chiedo per quale motivo non sia ancora pubblicato, per quello che io posso vedere sulla rete, il numero dei trattamenti fatti, quelli andati a buon fine e quelli che abbiano avuto riscontri giudicati penalizzanti?

Mi rivolgo ora ai mezzi di comunicazione e a quanti ne siano responsabili, chiedendo loro per quale ragione non si vergognino di essere complici di chi dice di voler pensare alla salute dei cittadini, causandone, però, talvolta, consapevolmente o non, problemi, fisicamente e psicologicamente anche gravi. Non è bello mettersi a giustificare gli errori e scaricare tutte le responsabilità sulla cattiva gestione della sanità senza fare emergere le reali responsabilità di chi sbaglia, medici o paramedici che siano. Inoltre non è neppure piacevole a sentirsi che un sacerdote sia incapace di accettare un’inutile sofferenza. D’ altra parte appare chiaro ai più che la vita cristiana non significa “abbracciare il dolore”. Infatti il vangelo non condiziona la vita; Dio non ama il dolore; Lui chiede soltanto forza nella sofferenza, e questa condizione io la sto sperimentando sul mio corpo. Mi chiedo come mai chi si sia sottoposto ai trattamenti all’ospedale de L’Aquila non esprima compiutamente la propria gioia se non davanti ad una semplice tazzina di caffè al bar?

Ma ora vorrei porre fine ai miei scritti. Ho sentito come un dovere civile scrivere della mia dolorosa esperienza, visto il defilarsi dei mezzi di comunicazione davanti alla verità, per informare tutti coloro che magari ripongono le loro speranze di miglioramento della qualità della vita in una “macchina” presentata come innovativa e miracolosa.

Cara dottoressa, non so se lei sia riuscita a leggere anche gli articoli precedenti; ho fatto del mio meglio per farglieli avere; ma forse la pubblicità è più forte della vera informazione in un mondo in cui i potenti comandano e orientano le informazioni, false o vere che siano, dove la ragione è dalla parte di chi si mostra più aggressivo e prepotente. Capita a tutti di sbagliare in un mondo popolato di furbi o violenti. Riconoscere i propri errori e chiedere scusa diventa un atto rivoluzionario e coraggioso. Riconoscere i propri errori, poi, significa infondere speranza a quanti si impegnano a difendere il nostro pianeta che attende di essere salvato, non distrutto.

Ho sempre amato la vita, anche quando ho sofferto come a L’Aquila, perché la sofferenza è vero che è dolorosa, ma essa appare anche feconda: ho scoperto che un rapporto umano con chi soffre non ha prezzo e chi si illude di non sbagliare perde buone occasioni per imparare qualcosa, almeno riguardo alle sofferenze procurate ad altri. A L’Aquila non c’è stata chiarezza; mai avete detto che il trattamento non sia andato a buon fine. Nascondere la verità vuol dire ucciderla; c’è chi vuole distruggere la speranza e questo non deve mai succedere! Bisogna sempre cercare di far riflettere le persone e far in modo che esse non si vergognino di apparire nella sofferenza fragili e deboli.

Ho sognato di rivederci tutti come amici che possano discutere insieme sulle speranze riposte in uno strumento, sulle sofferenze subìte, sugli errori commessi e tutto questo senza sensi di colpa, né rabbia, né rancori. Sarebbe stato bello e piacevole vederci come amici che avrebbero potuto raccontarsi di speranze e anche di salute non pienamente recuperata. Purtroppo questo incontro non c’è stato. Vuol dire che continuerò a sognare. Con amicizia.☺

 

 

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