lettera di una traditrice   di Loredana Alberti
29 Settembre 2012 Share

lettera di una traditrice di Loredana Alberti

 

Roberto, carissimo,

è già una settimana, oggi venerdì, e so bene che non ti sentirò Mai più! Mai più! Mai più!

E so anche, mio amatissimo amico, padre, sostegno, mentore, coinvolto nella mia vita dalle mie insistite richieste amorose, coinvolta io nella tua e di Elena, perché nessuno mai si staccherebbe dalla perfezione ricevuta, dalla sobria civiltà etica che accompagnava i vostri atti, i vostri movimenti, la vostra vita e la tua poesia.

 Adesso so che ti sto tradendo: tu sei andato via senza chiamare nessuno dei tuoi figli adottivi, coloro che avrebbero voluto riempire l’assenza che ti è stata compagna ma soprattutto la grande assenza, il vuoto, la voragine di cinque anni fa che aveva il nome di Antonio, tuo figlio.

Ti scrissi prendimi, come figlia, ogni giorno voglio starvi vicino, ma anche lì sapevo che nulla avrebbe scosso la tua solitaria volontà di affrontare tutto il Resto, con le mani a scavare, con le unghie smozzicate, il cuore schiantato.

Sì sto tradendo il tuo silenzio, la tua volontà che tutti amici, cari, stampa, pubblico sapessero solo il sabato e che in silenzio saresti partito senza nessuna parola altrui su di te.

Strappo il velo della nostra storia perché un piccolo giornale del sud su cui scrivo, quello dove hai mandato un tuo breve messaggio in stato di “felicità confusionale”, (il sud che tanto amavi e che sceglievi se si trattava di riviste, di case editrici), sappia di te, di come hai vissuto qui nella tua Bologna che in questi giorni ancora manda canzoni di Lucio Dalla per la strada e che di te ha scritto parole che in gran parte vanno dimenticate. E che tu non avresti amato.

Nell’ultima telefonata, ricordi? Mi hai detto sono stanco, ho gli occhi che non vedono bene, le gambe mi fanno male, cammino con il bastone ma appena sarò presentabile (ah nella tua voce quella piccola civetteria che mi faceva sorridere) ci vedremo perché sai che sei in cima ai nostri pensieri.

Ti risposi ma io vi voglio abbracciare! Avrei voluto anche urlarti "mi manchi, le tue parole che sono state per me sempre forza per andare avanti per continuare mi mancano, mi mancano le mie quotidiane visite in via Castiglione prima e poi in via dei Poeti alla libreria Palmaverde dove Elena apriva la grande porta sospettosa (arrivavo senza telefonare) si schiariva nel vedermi, chiacchieravamo e se tu c’eri, e c’eri sempre nella tua stanza, nel tuo rifugio ad incontrare, ad ascoltare i giovani, a fare i pacchi da libraio come amavi definirti.

Uscivi e mi salutavi, stavamo due o tre minuti che erano per me linfa. Finivi sempre con il dire qualcosa che mi portava alla gioia. Ed io sapevo rispondere solo con i miei piccoli gesti da figlia amata: il primo ramo di pesco per Elena o le primule o l’erica di cui è appassionata e per te quaderni confezionati da me o a Natale l’aromatico the che oramai era un rito di scambio.

Venivate sempre a vederci, ascoltarci in via Tanari vecchia nella “cantina del Guerriero” arrivavate per ultimi quando le luci, già di per sé fioche, erano spente e lo spettacolo stava iniziando e andavate via per primi quando capivi che le battute erano le finali.  Qualcuno la poteva prendere per orgogliosa lontananza, era invece il tuo assoluto riserbo, il non volere apparire, il non volere essere distolto dallo spettacolo che ti trasportava. Dopo alcuni giorni mi avresti telefonato, inviato dei fogli scritti a mano e spediti spesso al Manifesto o all’Unità. Era un atto d’amore il tuo e quello di Elena, che non uscivate mai Ora ho in mano la tua  L’Italia sepolta sotto la neve, 32 copie a tue spese, la mia è la tredicesima e mi scrivi “con antica amicizia e forte considerazione".

Permettimi caro amico per questa antica amicizia di adornarti secondo l’usanza degli antichi ittiti: di indorarti il viso, di mettere sugli occhi due conchiglie di mare, una azzurra ed una verde, di dipingerti di ocra le braccia e di blu le mani. Ti pettinerò la barba con olio orientale (non preoccuparti nulla di frivolo) un olio adatto ai guerrieri come te. E poi qualche biscotto, the e miele, e infine libri, libri.

Il libro viene dalla tua amatissima Palmaverde e forse un poco ti è dispiaciuto separartene.
("Vendere i libri, mi creda, è la parte più dolorosa del mestiere di libraio. Tra i miei libri di casa e quelli di libreria non c'è mai stato un confine vero. Ogni libro che partiva era una perdita inesorabile. E quante volte, venduto un titolo, mi sono messo subito a cercarne uno identico per riempire il vuoto"). (E i suoi libri? Quelli scritti da lei? "Non so che sorte avranno… Forse la pattumiera della storia. Si sente odore di fumo nell'aria, la carta è riciclabile").

Permettimi invece, come tradimento massimo di mettercene tre tuoi Dopo Campoformio (Einaudi 1965), Le descrizioni in atto che ho in ciclostile con la copertina di carta scritta a mano da te e le borchie che lo tengono e L’Italia sepolta sotto la neve.

Non ti farà piacere ma mi saluteresti con il tuo nobilissimo baciamano (ho sempre pensato che baciarti sulla guancia ti avrebbe fatto arrossire).

Come sei arrossito quel giorno di tanti anni fa nello studio-casa di Fiorella, quando sei salito per incidere la tua voce, quattro versi di una tua poesia che portai come spettacolo alla Biblioteca della Resistenza. Non potevi sottrarti, i poeti invitati dovevano leggere se stessi e scegliere un altro poeta. Io scelsi te.

Solo a gennaio del 2011 a Roma si è tenuto un convegno su di te e la tua poesia civile. Qui a Bologna nulla. Noi, i pochi tuoi orfani, a spingere su qualcuno, tuo nipote con la casa editrice Pendragon ha ripubblicato i tuoi lavori teatrali, ed anche delle tue poesie.

Avresti potuto avere soldi e fama, ma non hai mai voluto niente. E, negli ultimi mesi di vita ti sei fatto promettere da Elena che, quando quel giorno sarebbe arrivato, non ci sarebbero stati funerali, né pubblici né privati, nessuna commemorazione o ricordo: “E’ tutto lì, in quello che ho scritto”.

Il primo che intuì questo  tuo aspetto, persino in anticipo sulle tue “clamorose” scelte editoriali, fu il tuo sodale dei tempi di “Officina” (e ancor prima), Pier Paolo Pasolini: che nel 1964, in Poesia in forma di rosa, ti dedicò questo citatissimo (e a sua volta ambivalente) ritratto: “Nel terzo / petalo odoroso si contempla / ROVERSI, come un monaco di clausura / diventato pazzo, che cerca una clausura nella / clausura, per rifare di nuovo il cammino già fatto, / senza notizie biografiche, cicala nel sole della tomba  / a trasformare livore in malinconia – comunque / quella è la sua vita, e della sua vita / i suoi versi sono testimoni / che hanno senso in con-/testi di dolore / nero”.

Tu stesso nel risvolto di copertina delle Trenta miserie d’Italia scrivevi: “Appartengo alla schiera, non folta, convinta che non solo si possa ma che si debba morire per la così detta ‘patria’, itala tellus, Vaterland. | Naturalmente, a Maratona, alle Termopili, a Salamina, a Curtatone e Montanara, sul Piave. […] Dunque questo testo è un canzoniere d’amore incattivito da una rabbia rabbiosa per un tradimento che è in atto ma che deve passare”.

Nella quarta delle Trenta miserie si legge un inciso lancinante: 

Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare

scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere

pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e

continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere.

Ci chiedi di nuovo, come compito di chi resta di continuare. E continuare come hai vissuto tu.

Per questo e su questo punto non ti tradirò. Mai più! Mai più! Mai più!☺

 ninive@aliceposta.it

 

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