Roberto Saviano, quando scrive Gomorra, è un giovane che riceve uno stipendio a tempo definito da parte di un ente pubblico, l’Osservatorio sulla camorra e l’illegalità. Ne viene fuori un libro: un ibrido fra documentario e romanzo, fra autobiografia e saggistica, fra letteratura e sociologia: quasi un nuovo genere letterario. In Gomorra ci sono i nomi dei nemici dello Stato e della convivenza civile, e cioè i nomi delle varie famiglie o clan dei camorristi. Erano anni che in un libro non si facevano i nomi. Per questo mi interessa partire da qui: la figura d’intellettuale che emerge da queste pagine non è molto lontana da quella auspicata da Edward Said. Uomo di cultura palestinese, raffinato accademico di una delle maggiori università americane, scrive che il rischio della nuova tipologia di intellettuale è di scomparire «in una miriade di particolari» e di diventare una «nuova figura professionale», un ingranaggio tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere. Da questa considerazione trae alcune conseguenze per nulla rinunciatarie e anzi assai interessanti. Egli delinea una figura di nuovo intellettuale: inserito nei nuovi complessi produttivi in posizione subordinata o esterno a essi, si configura come un outsider, un dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione pubblica, secondo Said, è di sollevare questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi e soprattutto «di trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate».
In Gomorra un giovane si aggira in scooter sui luoghi del crimine, fra gigantesche discariche di rifiuti, sangue di morti ammazzati, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, di armi e di merci. Per Saviano dire la verità significa esserci, fare uso di una «parola-sentinella» e di un’unica «arma- tura»: «pronunciarsi». E per «pronun- ciarsi» bisogna dire la verità, accumulare prove inconfutabili e parziali, perché vissute con il corpo, sperimentate dal vivo, filtrate e temprate dalle emozioni. Tra oggettività della denuncia e soggettività si instaura così un cortocircuito, in cui risiede indubbiamente anche il valore letterario dell’opera e che comunque rivela una eredità assunta consapevolmente: non solo quella apertamente dichiarata di Pasolini, ma più in generale quella dell’intellettuale scomodo e marginale che vive al confine, sulla frontiera, mediando fra il laureato in filosofia che fa il ricercatore sul campo, e la civiltà del denaro; la civiltà delle armi e dell’arroganza e quella della cultura e della dignità morale L’evidente lezione di Pasolini è portata all’estremo, là dove il maestro, che pure aveva già intuito, come Fortini, il punto di arrivo di un processo storico, non poteva arrivare. Gomorra documenta una fase nuova, in cui il senso della storia è senza storicismo, il senso dell’etica è senza morale precostituita e il senso dell’impegno civile è senza più nazione o popolo.
Non ha nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Antonio Gramsci.
Ed è sempre Franco Fortini a confortarci con questa nuova figura. Non il Fortini critico, ma il poeta, nella poesia dal titolo
Reversibilità
Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
si ascolti ancora i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin da ora? E così vive ancora,
parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
La poesia di Fortini ci comunica in fondo un messaggio semplice. In un mondo in cui adolescenza protratta, perdita della memoria collettiva e interruzione del rapporto di trasmissione fra padri e figli sono diventati esperienza comune, l’attività intellettuale che cerca un senso non solo individuale ma pubblico è l’unica risposta laica possibile al nulla della morte e alla ripetitività dei cicli biologici. ☺
ninive@aliceposta.it
Roberto Saviano, quando scrive Gomorra, è un giovane che riceve uno stipendio a tempo definito da parte di un ente pubblico, l’Osservatorio sulla camorra e l’illegalità. Ne viene fuori un libro: un ibrido fra documentario e romanzo, fra autobiografia e saggistica, fra letteratura e sociologia: quasi un nuovo genere letterario. In Gomorra ci sono i nomi dei nemici dello Stato e della convivenza civile, e cioè i nomi delle varie famiglie o clan dei camorristi. Erano anni che in un libro non si facevano i nomi. Per questo mi interessa partire da qui: la figura d’intellettuale che emerge da queste pagine non è molto lontana da quella auspicata da Edward Said. Uomo di cultura palestinese, raffinato accademico di una delle maggiori università americane, scrive che il rischio della nuova tipologia di intellettuale è di scomparire «in una miriade di particolari» e di diventare una «nuova figura professionale», un ingranaggio tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere. Da questa considerazione trae alcune conseguenze per nulla rinunciatarie e anzi assai interessanti. Egli delinea una figura di nuovo intellettuale: inserito nei nuovi complessi produttivi in posizione subordinata o esterno a essi, si configura come un outsider, un dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione pubblica, secondo Said, è di sollevare questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi e soprattutto «di trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate».
In Gomorra un giovane si aggira in scooter sui luoghi del crimine, fra gigantesche discariche di rifiuti, sangue di morti ammazzati, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, di armi e di merci. Per Saviano dire la verità significa esserci, fare uso di una «parola-sentinella» e di un’unica «arma- tura»: «pronunciarsi». E per «pronun- ciarsi» bisogna dire la verità, accumulare prove inconfutabili e parziali, perché vissute con il corpo, sperimentate dal vivo, filtrate e temprate dalle emozioni. Tra oggettività della denuncia e soggettività si instaura così un cortocircuito, in cui risiede indubbiamente anche il valore letterario dell’opera e che comunque rivela una eredità assunta consapevolmente: non solo quella apertamente dichiarata di Pasolini, ma più in generale quella dell’intellettuale scomodo e marginale che vive al confine, sulla frontiera, mediando fra il laureato in filosofia che fa il ricercatore sul campo, e la civiltà del denaro; la civiltà delle armi e dell’arroganza e quella della cultura e della dignità morale L’evidente lezione di Pasolini è portata all’estremo, là dove il maestro, che pure aveva già intuito, come Fortini, il punto di arrivo di un processo storico, non poteva arrivare. Gomorra documenta una fase nuova, in cui il senso della storia è senza storicismo, il senso dell’etica è senza morale precostituita e il senso dell’impegno civile è senza più nazione o popolo.
Non ha nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Antonio Gramsci.
Ed è sempre Franco Fortini a confortarci con questa nuova figura. Non il Fortini critico, ma il poeta, nella poesia dal titolo
Reversibilità
Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
si ascolti ancora i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin da ora? E così vive ancora,
parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
La poesia di Fortini ci comunica in fondo un messaggio semplice. In un mondo in cui adolescenza protratta, perdita della memoria collettiva e interruzione del rapporto di trasmissione fra padri e figli sono diventati esperienza comune, l’attività intellettuale che cerca un senso non solo individuale ma pubblico è l’unica risposta laica possibile al nulla della morte e alla ripetitività dei cicli biologici. ☺
Roberto Saviano, quando scrive Gomorra, è un giovane che riceve uno stipendio a tempo definito da parte di un ente pubblico, l’Osservatorio sulla camorra e l’illegalità. Ne viene fuori un libro: un ibrido fra documentario e romanzo, fra autobiografia e saggistica, fra letteratura e sociologia: quasi un nuovo genere letterario. In Gomorra ci sono i nomi dei nemici dello Stato e della convivenza civile, e cioè i nomi delle varie famiglie o clan dei camorristi. Erano anni che in un libro non si facevano i nomi. Per questo mi interessa partire da qui: la figura d’intellettuale che emerge da queste pagine non è molto lontana da quella auspicata da Edward Said. Uomo di cultura palestinese, raffinato accademico di una delle maggiori università americane, scrive che il rischio della nuova tipologia di intellettuale è di scomparire «in una miriade di particolari» e di diventare una «nuova figura professionale», un ingranaggio tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere. Da questa considerazione trae alcune conseguenze per nulla rinunciatarie e anzi assai interessanti. Egli delinea una figura di nuovo intellettuale: inserito nei nuovi complessi produttivi in posizione subordinata o esterno a essi, si configura come un outsider, un dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione pubblica, secondo Said, è di sollevare questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi e soprattutto «di trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate».
In Gomorra un giovane si aggira in scooter sui luoghi del crimine, fra gigantesche discariche di rifiuti, sangue di morti ammazzati, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, di armi e di merci. Per Saviano dire la verità significa esserci, fare uso di una «parola-sentinella» e di un’unica «arma- tura»: «pronunciarsi». E per «pronun- ciarsi» bisogna dire la verità, accumulare prove inconfutabili e parziali, perché vissute con il corpo, sperimentate dal vivo, filtrate e temprate dalle emozioni. Tra oggettività della denuncia e soggettività si instaura così un cortocircuito, in cui risiede indubbiamente anche il valore letterario dell’opera e che comunque rivela una eredità assunta consapevolmente: non solo quella apertamente dichiarata di Pasolini, ma più in generale quella dell’intellettuale scomodo e marginale che vive al confine, sulla frontiera, mediando fra il laureato in filosofia che fa il ricercatore sul campo, e la civiltà del denaro; la civiltà delle armi e dell’arroganza e quella della cultura e della dignità morale L’evidente lezione di Pasolini è portata all’estremo, là dove il maestro, che pure aveva già intuito, come Fortini, il punto di arrivo di un processo storico, non poteva arrivare. Gomorra documenta una fase nuova, in cui il senso della storia è senza storicismo, il senso dell’etica è senza morale precostituita e il senso dell’impegno civile è senza più nazione o popolo.
Non ha nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Antonio Gramsci.
Ed è sempre Franco Fortini a confortarci con questa nuova figura. Non il Fortini critico, ma il poeta, nella poesia dal titolo
Reversibilità
Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
si ascolti ancora i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin da ora? E così vive ancora,
parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
La poesia di Fortini ci comunica in fondo un messaggio semplice. In un mondo in cui adolescenza protratta, perdita della memoria collettiva e interruzione del rapporto di trasmissione fra padri e figli sono diventati esperienza comune, l’attività intellettuale che cerca un senso non solo individuale ma pubblico è l’unica risposta laica possibile al nulla della morte e alla ripetitività dei cicli biologici. ☺
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