Lo spunto per queste riflessioni è nato alcuni mesi fa in seguito alla lettura di un articolo di Andrea Romano sul Sole 24 Ore (Fuori gioco per carenza di idee, 24/01/10). L’autore, storico e analista della politica fra i più brillanti e attenti, già autore di una bella biografia di Tony Blair (The Boy, Mondadori) e del famoso (e molto discusso) Compagni di scuola sulle “gesta” della classe dirigente post – PCI dagli esordi in Fgci fino agli “odierni splendori” nel Pd, coglie nel segno una delle più gravi pecche dell’Italia dei nostri giorni. A fronte di un’iperfetazione di ideologie – nonostante la vulgata gridi ancora alla “fine dell’ideologia”, non vedo come altro siano definibili i vari berlusconismo, leghismo, o l’ultimo nato, il territorialismo – ciò che colpisce è un’impressionante e stupefacente carenza di quelle idee che, formulate da intellettuali e studiosi, vengano poi tradotte in progetti e programmi politici dai diversi partiti italiani. Oppure vogliamo ancora credere che lo strampalato mantra del “federalismo fiscale” bossiano – tremontiano conservi ancora l’organicità del programma del professor Miglio esposto nel famoso decalogo di Assago (1993)?
La diagnosi di Romano è impietosa: non è stata né la politica a emanciparsi tracotantemente dalle suggestioni intellettuali, né il “degrado morale” degli italiani post – anni 80 (la «società incivile» di Crainz) a portarli in uno “stato di minorità” culturale tale da renderli impermeabili alle idee. No. La colpa va ascritta interamente agli intellettuali che, chiusi nella turris eburnea del loro ruolo sacerdotale (i cui precursori – nota giustamente Asor Rosa – sono gli “ordini religiosi medievali”, Il grande silenzio, Laterza), non hanno saputo cogliere la grande occasione offerta dalla marcata democratizzazione del mercato editoriale italiano degli ultimi vent’anni (si vedano le differenze di vendite per le diverse porzioni di mercato), ma, prigionieri di vecchi schemi la cui precondizione è un accesso diseguale al consumo culturale (pochi sanno, molti si devono mobilitare, e lo spazio per l’intellettuale – sacerdote è ingente), si sono condannati ad un destino di irrilevanza o, peggio ancora, di semplice “censura morale”, senza più alcuna capacità di lettura della società italiana (si pensi a tutte le previsioni puntualmente sbagliate ad ogni nuova elezione politica), anche perché – che lo si voglia o no – nella funzione di “produzione di immagini” ci sono mezzi più semplici, più seducenti e, soprattutto, più alla portata di tutti.
Per Romano, invece, un posto per l’intellettuale nella società (italiana) odierna c’è: «è quello che nella tripartizione di Alfonso Berardinelli corrisponderebbe al mestiere dell’intellettuale Tecnico, accanto a quelli del Metafisico e del Critico. Ovvero di colui che “mira a far funzionare efficacemente i diversi aspetti della realtà (legislazione, corpo umano, produzione e finanza, istituzioni, etc.)”. Detto altrimenti, è il mestiere di chi sa di cosa parla. E che in quanto tale può contribuire alla politica».
Come, però, questa figura si configuri è questione ancora inevasa. Il mio intento è allora quello di ricostruire la parabola storica della figura dell’intellettuale – sacerdote nella società italiana, per giungere ad una definizione univoca che chiarisca in che modo e fino a che punto esso riesca a rivestire la sua funzione mediatrice. Da qui, poi, vorrei approfondire le caratteristiche dell’intellettuale-tecnico attraverso le accorte riflessioni del professor Salvatore Biasco. Sarà un percorso a tappe e, per questo, spero che i lettori avranno la pazienza di seguirmi. Cercherò di essere il più neutro possibile, anche se gli autori di riferimento sono tutti ascrivibili al campo della sinistra (o delle sue declinazioni). Non ritengo possibile, infatti, annullare del tutto gli effetti delle “sorgenti culturali” cui ci si abbevera; inoltre – a me sembra – è proprio la sinistra la parte politica a cui più è necessario un contributo ideazionale fattivo da parte degli intellettuali, anche per favorire un ricambio che più che di uomini dovrebbe essere proprio di idee.☺
edoardo.lamedica@gmail.com
Ma presto o tardi sono le idee,
non gli interessi costituiti,
che sono pericolose sia in bene che in male.
(John M. Keynes)
Lo spunto per queste riflessioni è nato alcuni mesi fa in seguito alla lettura di un articolo di Andrea Romano sul Sole 24 Ore (Fuori gioco per carenza di idee, 24/01/10). L’autore, storico e analista della politica fra i più brillanti e attenti, già autore di una bella biografia di Tony Blair (The Boy, Mondadori) e del famoso (e molto discusso) Compagni di scuola sulle “gesta” della classe dirigente post – PCI dagli esordi in Fgci fino agli “odierni splendori” nel Pd, coglie nel segno una delle più gravi pecche dell’Italia dei nostri giorni. A fronte di un’iperfetazione di ideologie – nonostante la vulgata gridi ancora alla “fine dell’ideologia”, non vedo come altro siano definibili i vari berlusconismo, leghismo, o l’ultimo nato, il territorialismo – ciò che colpisce è un’impressionante e stupefacente carenza di quelle idee che, formulate da intellettuali e studiosi, vengano poi tradotte in progetti e programmi politici dai diversi partiti italiani. Oppure vogliamo ancora credere che lo strampalato mantra del “federalismo fiscale” bossiano – tremontiano conservi ancora l’organicità del programma del professor Miglio esposto nel famoso decalogo di Assago (1993)?
La diagnosi di Romano è impietosa: non è stata né la politica a emanciparsi tracotantemente dalle suggestioni intellettuali, né il “degrado morale” degli italiani post – anni 80 (la «società incivile» di Crainz) a portarli in uno “stato di minorità” culturale tale da renderli impermeabili alle idee. No. La colpa va ascritta interamente agli intellettuali che, chiusi nella turris eburnea del loro ruolo sacerdotale (i cui precursori – nota giustamente Asor Rosa – sono gli “ordini religiosi medievali”, Il grande silenzio, Laterza), non hanno saputo cogliere la grande occasione offerta dalla marcata democratizzazione del mercato editoriale italiano degli ultimi vent’anni (si vedano le differenze di vendite per le diverse porzioni di mercato), ma, prigionieri di vecchi schemi la cui precondizione è un accesso diseguale al consumo culturale (pochi sanno, molti si devono mobilitare, e lo spazio per l’intellettuale – sacerdote è ingente), si sono condannati ad un destino di irrilevanza o, peggio ancora, di semplice “censura morale”, senza più alcuna capacità di lettura della società italiana (si pensi a tutte le previsioni puntualmente sbagliate ad ogni nuova elezione politica), anche perché – che lo si voglia o no – nella funzione di “produzione di immagini” ci sono mezzi più semplici, più seducenti e, soprattutto, più alla portata di tutti.
Per Romano, invece, un posto per l’intellettuale nella società (italiana) odierna c’è: «è quello che nella tripartizione di Alfonso Berardinelli corrisponderebbe al mestiere dell’intellettuale Tecnico, accanto a quelli del Metafisico e del Critico. Ovvero di colui che “mira a far funzionare efficacemente i diversi aspetti della realtà (legislazione, corpo umano, produzione e finanza, istituzioni, etc.)”. Detto altrimenti, è il mestiere di chi sa di cosa parla. E che in quanto tale può contribuire alla politica».
Come, però, questa figura si configuri è questione ancora inevasa. Il mio intento è allora quello di ricostruire la parabola storica della figura dell’intellettuale – sacerdote nella società italiana, per giungere ad una definizione univoca che chiarisca in che modo e fino a che punto esso riesca a rivestire la sua funzione mediatrice. Da qui, poi, vorrei approfondire le caratteristiche dell’intellettuale-tecnico attraverso le accorte riflessioni del professor Salvatore Biasco. Sarà un percorso a tappe e, per questo, spero che i lettori avranno la pazienza di seguirmi. Cercherò di essere il più neutro possibile, anche se gli autori di riferimento sono tutti ascrivibili al campo della sinistra (o delle sue declinazioni). Non ritengo possibile, infatti, annullare del tutto gli effetti delle “sorgenti culturali” cui ci si abbevera; inoltre – a me sembra – è proprio la sinistra la parte politica a cui più è necessario un contributo ideazionale fattivo da parte degli intellettuali, anche per favorire un ricambio che più che di uomini dovrebbe essere proprio di idee.☺
Lo spunto per queste riflessioni è nato alcuni mesi fa in seguito alla lettura di un articolo di Andrea Romano sul Sole 24 Ore (Fuori gioco per carenza di idee, 24/01/10). L’autore, storico e analista della politica fra i più brillanti e attenti, già autore di una bella biografia di Tony Blair (The Boy, Mondadori) e del famoso (e molto discusso) Compagni di scuola sulle “gesta” della classe dirigente post – PCI dagli esordi in Fgci fino agli “odierni splendori” nel Pd, coglie nel segno una delle più gravi pecche dell’Italia dei nostri giorni. A fronte di un’iperfetazione di ideologie – nonostante la vulgata gridi ancora alla “fine dell’ideologia”, non vedo come altro siano definibili i vari berlusconismo, leghismo, o l’ultimo nato, il territorialismo – ciò che colpisce è un’impressionante e stupefacente carenza di quelle idee che, formulate da intellettuali e studiosi, vengano poi tradotte in progetti e programmi politici dai diversi partiti italiani. Oppure vogliamo ancora credere che lo strampalato mantra del “federalismo fiscale” bossiano – tremontiano conservi ancora l’organicità del programma del professor Miglio esposto nel famoso decalogo di Assago (1993)?
La diagnosi di Romano è impietosa: non è stata né la politica a emanciparsi tracotantemente dalle suggestioni intellettuali, né il “degrado morale” degli italiani post – anni 80 (la «società incivile» di Crainz) a portarli in uno “stato di minorità” culturale tale da renderli impermeabili alle idee. No. La colpa va ascritta interamente agli intellettuali che, chiusi nella turris eburnea del loro ruolo sacerdotale (i cui precursori – nota giustamente Asor Rosa – sono gli “ordini religiosi medievali”, Il grande silenzio, Laterza), non hanno saputo cogliere la grande occasione offerta dalla marcata democratizzazione del mercato editoriale italiano degli ultimi vent’anni (si vedano le differenze di vendite per le diverse porzioni di mercato), ma, prigionieri di vecchi schemi la cui precondizione è un accesso diseguale al consumo culturale (pochi sanno, molti si devono mobilitare, e lo spazio per l’intellettuale – sacerdote è ingente), si sono condannati ad un destino di irrilevanza o, peggio ancora, di semplice “censura morale”, senza più alcuna capacità di lettura della società italiana (si pensi a tutte le previsioni puntualmente sbagliate ad ogni nuova elezione politica), anche perché – che lo si voglia o no – nella funzione di “produzione di immagini” ci sono mezzi più semplici, più seducenti e, soprattutto, più alla portata di tutti.
Per Romano, invece, un posto per l’intellettuale nella società (italiana) odierna c’è: «è quello che nella tripartizione di Alfonso Berardinelli corrisponderebbe al mestiere dell’intellettuale Tecnico, accanto a quelli del Metafisico e del Critico. Ovvero di colui che “mira a far funzionare efficacemente i diversi aspetti della realtà (legislazione, corpo umano, produzione e finanza, istituzioni, etc.)”. Detto altrimenti, è il mestiere di chi sa di cosa parla. E che in quanto tale può contribuire alla politica».
Come, però, questa figura si configuri è questione ancora inevasa. Il mio intento è allora quello di ricostruire la parabola storica della figura dell’intellettuale – sacerdote nella società italiana, per giungere ad una definizione univoca che chiarisca in che modo e fino a che punto esso riesca a rivestire la sua funzione mediatrice. Da qui, poi, vorrei approfondire le caratteristiche dell’intellettuale-tecnico attraverso le accorte riflessioni del professor Salvatore Biasco. Sarà un percorso a tappe e, per questo, spero che i lettori avranno la pazienza di seguirmi. Cercherò di essere il più neutro possibile, anche se gli autori di riferimento sono tutti ascrivibili al campo della sinistra (o delle sue declinazioni). Non ritengo possibile, infatti, annullare del tutto gli effetti delle “sorgenti culturali” cui ci si abbevera; inoltre – a me sembra – è proprio la sinistra la parte politica a cui più è necessario un contributo ideazionale fattivo da parte degli intellettuali, anche per favorire un ricambio che più che di uomini dovrebbe essere proprio di idee.☺
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