L'intervallo, di Leonardo Di Costanzo, è uno di quei piccoli eventi che provocano emozioni tali da modificare la struttura del nostro sistema di percezione. Il film, nel nostro caso, in generale l'arte, che cambia il corso delle cose, l'umanesimo che promuove la crescita collettiva.
Hanno detto che il film va al di là dei propri intenti ed è vero. Tutto nasce dalla volontà di spiegare le modalità del controllo e la costruzione della cultura mafiosa. Il prodotto finale è una sorta di distillato di bellezza, innocenza e cruda lucidità.
Due ragazzi chiusi in una struttura fatiscente e abbandonata, lui involontario carceriere, lei incolpevole prigioniera in attesa del giudizio del boss di quartiere, entrambi ostaggi. Un segmento della loro vita in una città lontana dal momento, città che quasi non esiste. Non esiste altro che il luogo della loro reclusione e l'ombra e il buio.
Ma da questa stasi claustrofobica, dal dato incontrovertibile del condizionamento del potere criminale, ha origine dapprima un movimento cieco, nevrotico, di seguito la comunicazione; inizialmente aggressiva, schietta e complice, poi.
La resa alla reciproca fiducia permette a Veronica e a Salvatore la scoperta e l'esplorazione di un mondo incantato che fino ad allora era solo prigione. Qui avviene un cambio netto di tonalità visive cosicché i vari gradi del buio si trasformano in luce piena, filtrata solo dal fitto della vegetazione.
È un cammino a ritroso quello che percorrono nel parco incolto e nei sotterranei della struttura in disuso. Un cammino che li riporta al gioco, al candore dei loro anni, all'ingenuo fascino del mistero che precede la scoperta.
Costretti in uno spazio, fisico e temporale, dilatato, i due protagonisti conquistano la libertà riappropriandosi di ciò che la miseria, il crimine, l'ingiustizia sociale hanno sottratto loro.
Sperimentano, in cattività – e nella finzione -, ciò che giornalmente – e nella realtà – viene loro negato, vivere la propria età.
Una lucidità spietata riporta Veronica sui suoi passi, dopo aver trovato una breccia che le avrebbe permesso la fuga. È la lucidità di analisi di fronte ad un potere che schiaccia o è la paura e il senso di solitudine ad inibirle il movimento? E ancora, è pavida ottusità, quella dei ragazzi, che li porta ad accettare prassi e logica del potere che abusa o finzione che guarda solo a determinata volontà di salvezza? Domande aperte.
Mirabile la sequenza del boss che, nel buio quasi totale, esercita il potere minacciando prima, con suadente persuasione poi, e corrompe.
A monte di questo piccolo gioiello c'è una concezione nuova di film che scaturisce non dalla diretta creatività di chi gira ma da un progetto corale. I due attori sono, infatti, ragazzi di una Napoli di strada che hanno affinato creatività e consapevolezza all'interno di laboratori teatrali. Il regista li riprende quindi, quale semplice e attento osservatore, quasi li insegue; il suo è uno sguardo lieve, uno scrutare attento ai minimi dettagli. È in questa sorta di leggerezza che io vedo la differenza dal racconto neorealista con cui viene spontaneo paragonare l'opera.
La distanza tra i due ragazzi e la macchina da presa non è però la stessa che intercorre tra loro e il regista. Se infatti, Veronica e Salvatore rimangono autonomi protagonisti del film è perché Di Costanzo ha regalato loro uno spazio libero, una possibilità di scelta, una pausa, un intervallo, appunto, con infinita dedizione.☺
cristina.muccilli@gmail.com
L'intervallo, di Leonardo Di Costanzo, è uno di quei piccoli eventi che provocano emozioni tali da modificare la struttura del nostro sistema di percezione. Il film, nel nostro caso, in generale l'arte, che cambia il corso delle cose, l'umanesimo che promuove la crescita collettiva.
Hanno detto che il film va al di là dei propri intenti ed è vero. Tutto nasce dalla volontà di spiegare le modalità del controllo e la costruzione della cultura mafiosa. Il prodotto finale è una sorta di distillato di bellezza, innocenza e cruda lucidità.
Due ragazzi chiusi in una struttura fatiscente e abbandonata, lui involontario carceriere, lei incolpevole prigioniera in attesa del giudizio del boss di quartiere, entrambi ostaggi. Un segmento della loro vita in una città lontana dal momento, città che quasi non esiste. Non esiste altro che il luogo della loro reclusione e l'ombra e il buio.
Ma da questa stasi claustrofobica, dal dato incontrovertibile del condizionamento del potere criminale, ha origine dapprima un movimento cieco, nevrotico, di seguito la comunicazione; inizialmente aggressiva, schietta e complice, poi.
La resa alla reciproca fiducia permette a Veronica e a Salvatore la scoperta e l'esplorazione di un mondo incantato che fino ad allora era solo prigione. Qui avviene un cambio netto di tonalità visive cosicché i vari gradi del buio si trasformano in luce piena, filtrata solo dal fitto della vegetazione.
È un cammino a ritroso quello che percorrono nel parco incolto e nei sotterranei della struttura in disuso. Un cammino che li riporta al gioco, al candore dei loro anni, all'ingenuo fascino del mistero che precede la scoperta.
Costretti in uno spazio, fisico e temporale, dilatato, i due protagonisti conquistano la libertà riappropriandosi di ciò che la miseria, il crimine, l'ingiustizia sociale hanno sottratto loro.
Sperimentano, in cattività – e nella finzione -, ciò che giornalmente – e nella realtà – viene loro negato, vivere la propria età.
Una lucidità spietata riporta Veronica sui suoi passi, dopo aver trovato una breccia che le avrebbe permesso la fuga. È la lucidità di analisi di fronte ad un potere che schiaccia o è la paura e il senso di solitudine ad inibirle il movimento? E ancora, è pavida ottusità, quella dei ragazzi, che li porta ad accettare prassi e logica del potere che abusa o finzione che guarda solo a determinata volontà di salvezza? Domande aperte.
Mirabile la sequenza del boss che, nel buio quasi totale, esercita il potere minacciando prima, con suadente persuasione poi, e corrompe.
A monte di questo piccolo gioiello c'è una concezione nuova di film che scaturisce non dalla diretta creatività di chi gira ma da un progetto corale. I due attori sono, infatti, ragazzi di una Napoli di strada che hanno affinato creatività e consapevolezza all'interno di laboratori teatrali. Il regista li riprende quindi, quale semplice e attento osservatore, quasi li insegue; il suo è uno sguardo lieve, uno scrutare attento ai minimi dettagli. È in questa sorta di leggerezza che io vedo la differenza dal racconto neorealista con cui viene spontaneo paragonare l'opera.
La distanza tra i due ragazzi e la macchina da presa non è però la stessa che intercorre tra loro e il regista. Se infatti, Veronica e Salvatore rimangono autonomi protagonisti del film è perché Di Costanzo ha regalato loro uno spazio libero, una possibilità di scelta, una pausa, un intervallo, appunto, con infinita dedizione.☺
L'intervallo, di Leonardo Di Costanzo, è uno di quei piccoli eventi che provocano emozioni tali da modificare la struttura del nostro sistema di percezione. Il film, nel nostro caso, in generale l'arte, che cambia il corso delle cose, l'umanesimo che promuove la crescita collettiva.
Hanno detto che il film va al di là dei propri intenti ed è vero. Tutto nasce dalla volontà di spiegare le modalità del controllo e la costruzione della cultura mafiosa. Il prodotto finale è una sorta di distillato di bellezza, innocenza e cruda lucidità.
Due ragazzi chiusi in una struttura fatiscente e abbandonata, lui involontario carceriere, lei incolpevole prigioniera in attesa del giudizio del boss di quartiere, entrambi ostaggi. Un segmento della loro vita in una città lontana dal momento, città che quasi non esiste. Non esiste altro che il luogo della loro reclusione e l'ombra e il buio.
Ma da questa stasi claustrofobica, dal dato incontrovertibile del condizionamento del potere criminale, ha origine dapprima un movimento cieco, nevrotico, di seguito la comunicazione; inizialmente aggressiva, schietta e complice, poi.
La resa alla reciproca fiducia permette a Veronica e a Salvatore la scoperta e l'esplorazione di un mondo incantato che fino ad allora era solo prigione. Qui avviene un cambio netto di tonalità visive cosicché i vari gradi del buio si trasformano in luce piena, filtrata solo dal fitto della vegetazione.
È un cammino a ritroso quello che percorrono nel parco incolto e nei sotterranei della struttura in disuso. Un cammino che li riporta al gioco, al candore dei loro anni, all'ingenuo fascino del mistero che precede la scoperta.
Costretti in uno spazio, fisico e temporale, dilatato, i due protagonisti conquistano la libertà riappropriandosi di ciò che la miseria, il crimine, l'ingiustizia sociale hanno sottratto loro.
Sperimentano, in cattività – e nella finzione -, ciò che giornalmente – e nella realtà – viene loro negato, vivere la propria età.
Una lucidità spietata riporta Veronica sui suoi passi, dopo aver trovato una breccia che le avrebbe permesso la fuga. È la lucidità di analisi di fronte ad un potere che schiaccia o è la paura e il senso di solitudine ad inibirle il movimento? E ancora, è pavida ottusità, quella dei ragazzi, che li porta ad accettare prassi e logica del potere che abusa o finzione che guarda solo a determinata volontà di salvezza? Domande aperte.
Mirabile la sequenza del boss che, nel buio quasi totale, esercita il potere minacciando prima, con suadente persuasione poi, e corrompe.
A monte di questo piccolo gioiello c'è una concezione nuova di film che scaturisce non dalla diretta creatività di chi gira ma da un progetto corale. I due attori sono, infatti, ragazzi di una Napoli di strada che hanno affinato creatività e consapevolezza all'interno di laboratori teatrali. Il regista li riprende quindi, quale semplice e attento osservatore, quasi li insegue; il suo è uno sguardo lieve, uno scrutare attento ai minimi dettagli. È in questa sorta di leggerezza che io vedo la differenza dal racconto neorealista con cui viene spontaneo paragonare l'opera.
La distanza tra i due ragazzi e la macchina da presa non è però la stessa che intercorre tra loro e il regista. Se infatti, Veronica e Salvatore rimangono autonomi protagonisti del film è perché Di Costanzo ha regalato loro uno spazio libero, una possibilità di scelta, una pausa, un intervallo, appunto, con infinita dedizione.☺
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