l’intollerabile e la coscienza
6 Marzo 2010 Share

l’intollerabile e la coscienza

 

Con una incisiva ed efficace espressione Emmanuel Levinas ha scritto che «il male non richiede spiegazioni, ma iniziative morali». Insomma, il male del mondo non è lì per costruirci attorno un apparato esplicativo, ma per essere affrontato, combattuto, sradicato. La prima forma di azione responsabile contro il male sta nella fatica dolorosa di guardarlo in faccia, nel profondo – come ad esempio ha fatto Dostojevski – per proteggersi dalla cultura della banalità, dei luoghi comuni, che contribuisce ad addormentare i riflessi e la vigilanza del pensiero e per liberarsi da un attivismo cieco che sfodera, per lo più, slancio emotivo primario e ritrovare, invece, le radici culturali e spirituali  del proprio pensiero ed azione.

Sotto il profilo culturale va compreso meglio il quadro reattivo dell’uomo postmoderno che vive in noi. Nella cultura dell’occidente si afferma, in modo strisciante, la convinzione che la negatività non ha riscatto. La caduta dei grandi racconti, la perdita della memoria è ciò che più ha attirato l’attenzione. Non a sufficienza si è avvertito che, con esse, è venuta meno, con pari tracollo, la visione della redenzione religiosa e della emancipazione laica. La crisi non è indolore: molte situazioni della vita personale e collettive (dolore, malattia, vecchiaia, morte, ma anche fame, ingiustizie sociali, processi di imbarbarimento) vengono intimamente giudicate irredimibili. La redenzione del male e il suo riscatto sono entrati in crisi da quando l’orizzonte delle aspettative umane si è drasticamente ripiegato di fronte alle responsabilità e complessità del governo della storia e in presenza del venire meno dell’idea di progresso: rinchiusi solo nella paura e nell’atteggiamento del difendere lo status quo.

L’abbassarsi dell’orizzonte delle aspettative è legato all’eclissi delle utopie e al tramonto delle speranze. Sullo sfondo si profila il dileguarsi del senso e dell’esperienza della promessa, dell’attesa, del futuro come tempo dell’avvento. La fine del futuro decide da sola la fine della redenzione, della  emancipazione, della tolleranza, del riscatto. Al massimo, ognuno stia a casa sua, nello status quo in cui si trova, perché «chi non ce la fa è per colpa sua». Si affermano elementi destrutturanti di darwinismo sociale che abbandona alla propria sorte i deboli, mentre lo stile di vita dominante si impasta di duttilità utilitaristica, compromessi da realpolitik, logiche di pura lotta competitiva.

L’esito è il passaggio inconsapevole dallo scandalo all’indifferenza. Se da ogni male la cultura cristiana richiede redenzione, quella laica esige emancipazione, la cultura dell’indifferenza propugna distanza: il male va allontanato, rimosso, coperto, mimetizzato. Non c’è spazio per lo scandalo, ma solo per una sua rendita emotiva, funzionale all’indifferenza. Risulta paradossale come nella cultura mediatica o della visibilità, ostentare ed esibire il male, vero o presunto, sia diventato il modo per occultarlo, svuotandolo della sua presa sulle coscienze. Nella modernità liquida, – per dirla con Bauman – là dove i legami interpersonali sono vissuti all’insegna della fragilità e mobilità, in cui si revocano facilmente gli impegni e altrettanto facilmente si annullano gli obblighi, anche il male diventa liquido, indeterminabile: è un male senza qualità, è de-sostanzializzato. La liquefazione delle strutture intersoggettive dell’essere porta con sé la liquefazione del male: l’unico modo di tutelarsi da esso è non lasciarsi raggiungere, come con le malattie infettive.

La situazione – antropologica più che sociologica – in cui ci troviamo é terribile: ci tocca tutti, ci svuota dal di dentro. Ridotti a spettatori, a volte commossi per breve tempo, siamo afasici, ovvero, senza capacità di dare parola agli eventi; siamo inermi, ovvero, senza risposta agli eventi, ci basta solo distanziarci da essi, che non tocchino noi e la nostra vita.

L’urgenza che preme sempre più è una sola: un esporsi, un compromettersi che evidenzi, prima di ogni discorso, il nostro avere a che fare con il male, consapevoli che vi si è implicati in molti modi. Dare forma alla coscienza attraverso la presa di coscienza di una cattiva coscienza: «una rivolta di ognuno contro se stesso, in modo che giudichi la propria partecipazione e la propria compiacenza al disordine stabilito» (E. Mounier). La distinzione tra «uomo spettatore» e «uomo partecipe» non riguarda tanto il mondo mediatico attuale, esterno alla persona, attiene, invece,  alla situazione fondamentale dell’uomo nell’esistenza feriale. Oggi tutto è trasformato in problema, mentre si è cancellato il mistero. Di fronte al problema ci poniamo spettatori e cerchiamo soluzioni che non ci coinvolgono, nel mistero siamo implicati: il mistero ci chiama in causa, ci addita una responsabilità. Il problema del male è davanti a me,  il mistero del male è in me!

In questo itinerario della coscienza nella esperienza del male accade l’esodo dallo spettatore all’attore, dall’impaurito al responsabile, nel senso originale  del termine: colui che risponde ed agisce per liberarsi e liberare dal male. L’atto che ci trasforma da spettatori in attori inizia dalla consapevolezza di una cattiva coscienza, passa attraverso una rinnovata coscienza dell’intollerabile ingiustizia per approdare – al dire di Bauman – ad un «impegno regolare e di lungo cammino».

Siamo condannati dalla storia globale – come aveva già intuito Hanna Arendt – a fare in modo che nessuno si chiami fuori. Per primi, per desiderio di potenza, noi occidentali ci siamo imbarcati nel viaggio che ci ha fatto generatori e protagonisti assoluti di questa storia globale e maledetta e, a causa del nostro operato, senza speranza, senza futuro.

Si profila l’ultima figura dell’im- pegno che affronta il male: colui che, nell’agire silenzioso e quotidiano, ricostruisce comunità: sta in mezzo tra locale e globale. Oltre i «trasvolatori» dall’alto, siano piloti di bombardieri o manager di multinazionali, ci sono quelli che si mettono in mezzo (inter-esse) producendo così valore di legame, beni relazionali i quali ritessono forme di convivenza e inclusione, generano comunità. Tra «il militare e il militante» prende forma il mettersi in mezzo,  là dove ci sono gli ultimi, gli scarti, le guerre e dove, tragicamente, come nulla avessimo imparato dalla storia, ricompaiono forme nuove e inquietanti di male assoluto.  ☺

 

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