L’uso della lingua
9 Luglio 2022
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L’uso della lingua

Storico fallimento dei referendum del 12 giugno 2022, con quota dei votanti ben al di sotto della soglia del quorum previsto per la validità dei referendum stessi: vuoi che la materia dei quesiti non interessasse, vuoi che i quesiti fossero mal posti, vuoi che il loro sotteso ideologico risultasse scandaloso per gli Italiani, vuoi che proprio in quel giorno otto abitanti su dieci del bel Paese abbiano deciso di far la calza, andare in spiaggia o alle giostre, rimbambirsi di serie tv dalla mattina alle otto fino a tarda sera.

Una riflessione sull’istituto referendario, sul merito e i modi in cui esso viene adoperato certo si imporrebbe, quanto meno per evitare alla prossima spese inutili e per fuggire polemiche ex post sul tasso di democraticità di una democrazia che toppa da anni, ed è un fatto sotto gli occhi di tutti. Che so? Magari bisognerebbe studiare un filtro a trama fitta che escluda dal plebiscito nazionale calcoli politico-partitici e personalistici di sorta, un filtro a spirale, tale da coinvolgere l’intera comunità nazionale, dalle realtà piccole a quelle grandi, e selezionare così la materia fine che si impone all’interesse pubblico, perché dirimente e decisiva per la vita di ognuno.

Ovvio, non è cosa facile; io, però, ci proverei a partire dal gruppo de la fonte, per proporvi una materia referendaria all’ apparenza bizzarra, ma che ha molto a che fare con la sopravvivenza sana della nostra democrazia (don Milani docet): l’uso della lingua.

Appena lo scorso anno si sono svolte numerose celebrazioni in Italia e in ogni dove, per onorare la memoria di Dante Alighieri, che dovrebbe essere anche memoria di una lingua duttile e sempre adatta al contesto, originale, chiara e precisa, ora fango ora stelle, armoniosa nelle distonie, economicamente bilanciata, perché comunicativa e corposa sempre, anche quando dice di etere lievissimo. Non per caso Dante, appassionato studioso di lingua, perciò scrittore consapevole, scriveva nel De vulgari eloquentia: “(…) conveniva dunque che gli appartenenti  al genere umano avessero per comunicarsi a vicenda i loro concetti un segno razionale e sensibile: razionale, perché deve ricevere e trasmettere da una ragione all’altra; sensibile, perché nulla si può trasferire da una ragione ad un’altra senza un mezzo sensibile”.

Il potenziale esornativo della lingua si attua se e solo se essa riesce a porre in equilibrio ragione e sensibilità nel significato sopraddetto: una lingua bella veicola significati che si fanno materia nella parola. Eppure…

Al dunque, cinque plausibili proposte referendarie, tutte originate da brutture linguistiche incalzanti che ci allontano di gran lunga dall’intelligenza di Dante:

1) abrogare o ridurre drasticamente l’uso delle sigle e degli acronimi, una vera selva per adepti in cui i neofiti si perdono e gli Italiani pure al novanta per cento, perché non sanno decidere tra MEF e MIUR, CAF ed ISEE, PTOF e DSA e DSGA, BBC e WTO (e se riuscite, sciogliete voi all’impronta!);

2) abrogare l’uso della prolessi della relativa che non serve a nulla e nulla comunica, perché il nesso relativo è privo di riferimenti altri da sé, dunque è contraddizione sintattica e mera acrobazia verbale, come quando, per esempio, invece che dire “i borghi più belli attraggono turisti”, diciamo “quelli che sono i borghi più belli attraggono turisti”;

3) abrogare o ridurre ai casi strettamente necessari l’uso di prestiti dall’ nglese, specie quando siano facilmente traducibili in italiano, a titolo di esempio spending review, un riesame delle spese dello Stato finalizzato al risparmio e al miglioramento del bilancio: non di sciovinismo trattasi, ma di amore per la trasparenza, considerato che non tutti gli Italiani hanno già raggiunto o intendono raggiungere il livello C2 di padronanza della lingua inglese come prescritto dal MIUR (se avrete sciolto sopra, solo allora capirete);

4) abrogare o ridurre drasticamente il conio linguistico burocratico, con speciale riguardo per i verbi denominativi quali “attenzionare” o “urgenzare”: a parte il fatto che sono francamente cacofonici, rendono greve anziché snellire il lavoro d’ufficio, specie se incappano in impiegati che ragionano, che già avrebbero dalla loro un patrimonio di decorose espressioni per esprimere i concetti che in quella stramba maniera si vorrebbero indicare e che al momento di scrivere “attenzionato” si chiedono perplessi “perché?”;

5) abrogare l’uso del presente al posto del futuro, che è sezione del tempo parimenti degna, spinge i pensieri oltre il qui ed ora, si oppone alla nostra smania di permanenza coriacea e cieca, ci arricchisce di un sguardo più elastico e fluido su noi stessi e sul mondo: ne riparleremo?

Una lingua che non paia altisonante, tranne poi essere fumosa ed opaca, una lingua che ricalchi le direttrici che Dante ci suggeriva sette secoli fa sarebbe una modernissima conquista di identità ecologica, su cui vale la pena scommettere.

A presto☺

 

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