Mangiare col paesaggio
15 Marzo 2020
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Mangiare col paesaggio

Qualche anno fa – eravamo nel 2015/16 – l’Università del Molise lanciò un nuovo indirizzo di studi denominato “Enogastronomia e turismo” nell’ambito del corso di laurea in Scienze turistiche, attivo da oltre vent’anni nella sede universitaria di Termoli. Sembrava una fuga in avanti. Invece questa iniziativa coglieva un processo ormai maturo in diverse regioni italiane, come la Toscana, il Veneto o il Piemonte, ma già in atto anche sul territorio molisano: il turismo enogastronomico come espressione del legame fecondo e ricco di potenzialità tra prodotti agroalimentari, paesaggio e imprese, da quelle agricole a quelle della trasformazione artigianale, da quelle della ristorazione a quelle ricettive. Lo conferma il Rapporto sul turismo enogastronomico italiano 2020 presentato alla BIT di Milano (Borsa Internazionale del Turismo) nel mese di febbraio. Una BIT dove, tra gli stand dell’affollato padiglione delle regioni, mancava il Molise, proprio nell’anno in cui qualcuno ha iniziato a cercarlo e se ne è cominciato a parlare, con la “regione che non esiste” che spunta improvvisamente dalla bocca di tutti, come mai prima era successo.

Da quel corso termolese sono usciti i primi laureati e ora anche il Ministero dell’Università si è adeguato, stabilendo una nuova classe di laurea, denominata “Scienze, culture e politiche della gastronomia”, aperto al momento in pochi Atenei con un piano di studi che integra discipline umanistiche e scientifiche, in modo da consentire la formazione di un profilo coerente con l’immenso patrimonio diffuso in tutte le regioni italiane e costituito dalle produzioni alimentari e dalle loro filiere, che vanno dal campo alla tavola. L’enogastronomia non esisterebbe senza considerare il suo stretto legame col territorio.

Partire dal cibo per arrivare al paesaggio. Entrambi – cibo e paesaggio – come dice il Rapporto realizzato da Roberta Garibaldi e presentato a Milano, sono risorse per il turismo. Il paesaggio è ciò a cui noi apparteniamo;  non a caso ‘paese’ e ‘paesaggio’ hanno la stessa radice etimologica, il paese nel senso di patria (dove siamo nati), ma anche come coscienza di luogo. L’Italia è un Paese di paesi; la nostra lingua permette questa assonanza. I paesi sono i nodi di una rete densa, fitta, distesa sulle campagne plurali costruite dalla natura e dall’uomo nel tempo lungo della storia. Da lì, dalle campagne e dall’agricoltura, viene quello che si mangia e quello che si beve. Ma quale consapevolezza esiste oggi di questo legame così intimo e ineludibile?

Riprendendo l’espressione di Wendell Berry, secondo cui “nutrirsi è un atto agricolo” e che, di conseguenza, produrre deve essere “un atto gastronomico”, il paesaggio emerge come elemento di connessione, ricco di valori reali e simbolici. Il paesaggio agrario, in primis, è stato a lungo lo specchio fedele dell’alimentazione ed è ormai riconosciuto che l’agricoltura, oltre a svolgere la sua funzione primaria di produzione di cibo, produce anche paesaggio. Cosa sarebbe il bel paesaggio italiano senza la mezzadria dell’Italia centrale, gli alpeggi alpini, le piantate padane, le transumanze e i latifondi meridionali? Senza i poderi, le masserie, le cascine, i masi o gli stazzi? Siccome l’agricoltura producendo cibo produce anche paesaggio, noi possiamo dire che mangiare è un atto paesaggistico.

Mangiare è una delle attività più importanti e ineludibili per l’umanità, ma si è persa la consapevolezza di quello che si mangia. Eppure dietro a ciascun piatto ci sta un paesaggio: quello giallo del grano, quello verde dell’olivo, un vigneto, un pascolo, una stalla, un frutteto, un orto o un cortile. Nell’immaginario dei nostri ragazzi forse c’è il mercato o il supermercato. Ma sarebbe più corretto immaginare la filiera, tutta la filiera, cioè il percorso che ha portato nel piatto quel prodotto: il seme, le forme di coltivazione e di trasformazione, il lavoro di chi lo ha prodotto, il contadino, la terra, la raccolta, il trasporto, la conservazione, la distribuzione etc. Il cibo quindi evoca un paesaggio agrario o zootecnico, e questi con le loro suggestioni si possono connotare anche come paesaggi del cibo.

Sullo spazio naturale gli agricoltori hanno, come artisti, disegnato il paesaggio. È la campagna che ha generato la città. Quando l’uomo ha smesso di essere nomade e si è fermato per coltivare la terra, là sono nati i primi villaggi, i primi agglomerati, antenati delle città medievali e moderne. Poi, a un certo punto, almeno dal medioevo in poi, è stata la città che ha governato la campagna. Un dominio economico che è diventato anche dominio politico.

Il cibo può e deve essere uno strumento per riconnettere città e campagna, produzione e consumo; per ridare voce al mondo rurale, ai paesi e al paesaggio come ambiti di vita e di libertà. In questo modo i prodotti alimentari, l’ enogastronomia, diventeranno anche una fondamentale leva di sviluppo dei territori, in particolare tramite la promozione di un turismo esperienziale centrato sulla sostenibilità ambientale e sull’integrazione delle risorse territoriali. Ma affinché ciò avvenga è necessario conoscere la storia e i prodotti del territorio, e mettere nel piatto quelli, prioritariamente: bere e mangiare a filiera corta, quando è possibile, adottare un approccio local all’alimentazione, riunire il gusto del mangiare e del bere alla bellezza del paesaggio.☺

 

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